Dem e statalismo/ Non ascoltare il richiamo della foresta

Dem e statalismo/ Non ascoltare il richiamo della foresta
Ci sono due modi diversi per guardare alla sconfitta del Pd nelle urne, e al travaglio profondo cui è in preda a seguito delle dimissioni di Matteo Renzi. La prima è...

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Ci sono due modi diversi per guardare alla sconfitta del Pd nelle urne, e al travaglio profondo cui è in preda a seguito delle dimissioni di Matteo Renzi. La prima è quella dell’esame evolutivo del carattere personale nell’esercizio della leadership di rottura esercitata da Renzi, fin da prima di assumerne la guida all’inizio della scorsa legislatura.


Ma c’è un secondo criterio, più oggettivo. Quello di considerare le difficoltà politiche del Pd, dal post referendum del dicembre 2016 ad oggi, nel quadro generale delle grandi difficoltà della socialdemocrazia europea. E’ un fenomeno di portata assai ampia. Che ovviamente può essere visto con due angolazioni profondamente diverse. Le quali conducono a scelte completamente opposte. E sono le scelte che si riproporranno anche nella nomina del nuovo leader del Pd, alla fine del processo che si avvierà in direzione lunedì prossimo. 

Se il risultato del Pd domenica scorsa è il peggiore della storia della sinistra italiana nel secondo dopoguerra, anche la crisi del socialismo europeo ha caratteri e dimensioni epocali.

I partiti socialisti e socialdemocratici europei sono arretrati in 15 delle ultime 17 elezioni degli ultimi anni.
Il 20,5% ottenuto dalla Spd lo scorso autunno alle elezioni tedesche è anch’esso il peggior risultato del dopoguerra. Il candidato socialista Hamon alle presidenziali francesi ha conquistato solo il 6%, e il PSF non ha raggiunto il 7% alle legislative. In Olanda i socialisti sono scesi fino al 5% , perdendo 19 punti percentuali.

In Grecia il Pasok, corresponsabile delle menzogne contabili che hanno portato il Paese allo sprofondo, ha perso 30 punti percentuali rispetto al 2010. Hanno perso il 10% i socialisti in Austria. Nel Regno Unito i laburisti avevano perso anch’essi il 10% tra 2001 e 2015, e poco prima della Brexit hanno fatto una scelta che è la vera tentazione di tutte le forze socialiste in ginocchio in Europa: abbandonare radicalmente l’agenda riformista blairiana , e tornare a una linea radicale e massimalista, antimercato e nazionalizzatrice.

Che cosa ha determinato questa eclisse? Tre potenti fattori. Primo Non aver compreso che la globalizzazione esalta l’export ad alto valore aggiunto dei Paesi avanzati, ma richiede una profonda modifica della vecchia cultura e regole del lavoro: ricentrando tutto sull’elevato capitale umano, per consentire alle imprese di pagare redditi elevati anche in presenza di alti costi di produzione, non erodendo i margini grazie alla maggior produttività. Restando invece con lo sguardo rivolto alla vecchia cultura taylorista del lavoro, i socialdemocratici blairisti si sono ritrovati col ceto medio falciato nel reddito disponibile. E pian piano inchiodati all’accusa di esser diventati mercatisti raccontando frottole sui benefici della globalizzazione, e tacendone gli oneri. 

Secondo: la nascita e l’ascesa potente di partiti populisti, soprattutto a destra ma anche alla sinistra dei socialdemocratici. Forze che, con vecchi slogan di assistenzialismo, nazionalizzazioni e autarchia, raccolgono consensi di massa tra i disoccupati e i lavoratori vittime della crisi del post 2011. Vedi Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e Die Linke in Germania.

In terzo luogo, la svolta liberal-socialista aveva portato i grandi partiti socialisti a diventare inevitabilmente forze di vasto consenso tra le èlite: finanziarie, bancarie, imprenditoriali. E tale caratteristica è diventata nella crisi economica, e in quella acutizzata con i flussi di immigrazione da Asia e Africa, una vera lampante contraddizione agli occhi del loro elettorato tradizionale, che li ha presi a considerare non più forze di sinistra democratica, ma lobby a tutela degli integrati e dei ricchi. 

Tutte e tre queste caratteristiche si ritrovano puntualmente nella crisi e nella sconfitta del Pd. Il Jobs Act è finito per essere considerato un grande regalo alle imprese per via della decontribuzione, senza modificarne la propensione a elevate dosi di contratti a tempo determinato: andava spiegato che è una tendenza oggettiva per restare agganciati all’erraticità della domanda estera e all’andamento troppo striminzito di quella domestica, ma non è stato fatto e si è così prestato il fianco alle critiche antagoniste. 

Le riforme della Buona Scuola e Madia della Pubblica Amministrazione sono partite come energicamente riformiste, con una scelta fortemente a favore del merito e la valorizzazione del ruolo dei dirigenti, per innalzare poi bandiera bianca nel travagliato post referendum. Col risultato di aver portato in ruolo e a tempo indeterminato oltre 150mila docenti, e al contempo perdendone il voto. La lista è lunga, si potrebbe continuare. 

Nella scelta del prossimo leader Pd, sarà dunque decisiva l’analisi delle cause della crisi del partito. Riformismo e anti-riformismo torneranno a essere i due criteri contrapposti che da sempre travagliano la storia della sinistra italiana: prima ancora della nascita a Livorno del PCI nel 1921, quando nel partito socialista d’inizio secolo a ogni congresso socialisti turatiani e massimalisti rivoluzionari si alternavano al comando, dandosele di santa ragione.
Tutto è cambiato, rispetto ad allora: lavori, mercati, tecnologie, media e tecniche del consenso. Ma la scelta di fondo resta quella tra nuovo riformismo e vecchio radicalismo alla Corbyn. Credere di tornare ai tempi di Occhetto come rimedio elettorale ai consensi dei populisti in Europa non ha funzionato: di fronte a improvvise marce indietro radicali del socialismo riformista dettate dalla disperazione, gli elettorati preferiscono le forze populiste vere a chi tenta di scimmiottarne parole d’ordine antieuropeiste, di chiusura delle frontiere, e di ritorno allo Stato imprenditore. 
La scelta del Pd non sarà dunque tra una leadership fortemente personalizzata (quella di Renzi, a cui vanno riconosciuti indubbi meriti sulla strada del riformismo europeo) e una più collegiale. Ma se capire gli errori e rendere ancor più netta la scelta riformista incarnata oggi da Paolo Gentiloni, Carlo Calenda, Umberto Minniti e Graziano Delrio. 


O credere di inseguire Liberi ed Eguali sulla via del massimalismo, e della loro ancor più severa bastonatura elettorale. Prima ancora di decidere se e con chi eventualmente allearsi al governo, è una scelta su se stessi, la propria identità, la propria cultura di governo, il proprio ancoraggio ideale e internazionale. Più sarà così, meglio sarà non solo per il Pd, ma per l’Italia in quanto tale. Visto che l’alternanza di governo, che è nell’interesse di tutti, nacque solo dopo che il Pci iniziò riformisticamente a fare i conti con la caduta del Muro di Berlino. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero