Palazzo Londra, i dubbi del Sostituto sullo Ior: «Perchè ci negò il mutuo che poi ci concesse l'Apsa? Per me resta un mistero»

il cardinale Angelo Becciu
di Franca Giansoldati
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Giovedì 16 Marzo 2023, 19:18 - Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 18:11

Città del Vaticano - L'udienza inizia con il giuramento di rito: «Giuro sul Santo Vangelo di dire tutta la verità, null'altro che la verità». Per la prima volta un Sostituto alla Segreteria di Stato, praticamente il collaboratore più stretto di un Papa, viene chiamato in tribunale a deporre per chiarire come si è sviluppata la ingarbugliata e opaca compravendita del famoso palazzo di Londra, da un partner finanziario all'altro, costato al portafoglio vaticano una autentica emorragia. Il quadro che descrive non è dei più esaltanti: monsignori che firmavano atti che non avrebbero potuto firmare, alti funzionari vaticani che remavano contro in un clima di sospetti reciproci.

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All'arcivescovo venezuelano Edgar Pena Parra - nelle cinque ore filate di domande fatte dalle difese e dall'accusa - rimane ancora (anche a lui) un grande mistero da sciogliere. “Misterium fidei”, lo definisce proprio così, sintetizzabile in questo quesito che è all'origine di tutto questo strampalato processo: per quale motivo il direttore dello Ior, Gianfranco Mammì, nel 2019, dopo avere dato parere positivo alla concessione del mutuo di 150 milioni richiesto dalla Segreteria di Stato che sarebbe servito per estinguere un precedente mutuo onerossissimo acceso anni prima in una banca esterna che costava alle finanze del Papa 1 milione di euro al mese di interessi passivi.

I soldi dello Ior sarebbero serviti a rientrare nel controllo finanziario del disgraziato palazzo di Londra.

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Lo Ior, invece, nell'arco di qualche settimana, senza alcuna motivazione, decise di negare il prestito interno. In quello stesso tempo Mammì andava però dai magistrati vaticani a denunciare la presunta truffa e senza nemmeno comunicare in Segreteria di Stato dell'avvenuta denuncia. 

«Noi abbiamo ricevuto una lettera a maggio 2019 da parte dello Ior. Ci dicevano che concedevano il prestito. Fin da febbraio, quando io ho avuto i primi contatti con lo Ior, ci era stata data l'assicurazione che lo avrebbero dato. Noi abbiamo pagato per quasi un anno 1 milione al mese. Per me tutto ciò resta un mistero: eppure con lo Ior non ho mai avuto problemi personali con nessuno. Del resto non ci voleva Einstein per capire che bisognava estinguere velocemente quel mutuo» spiega Pena Parra.

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Il quadro che ha delineato stamattina l'arcivescovo ha fatto balenare uno scontro sotterraneo tra poteri per il controllo finanziario delle risorse vaticane e dell'Obolo di San Pietro, fino a quel momento gestite da sempre dall'organo centrale di governo. «E' stata proprio una Via Crucis per noi! Anzi, raddoppiammo la Via Crucis, perché il Signore è caduto tre volte, noi siamo caduti sei volte» ha aggiunto Pena Parra nella sua testimonianza, confermando tutti i contenuti del suo «memoriale» del 2 giugno 2020 in cui metteva in luce il ruolo ambiguo di monsignor Alberto Perlasca – il principale accusatore e teste centrale al processo - il quale non aveva il potere di firma dei contratti e che negli uffici vaticano c'erano «clientelismi e favoritismi».

Pena Parra quando arrivò nel 2018 in Segreteria di Stato non sapeva nulla del Palazzo di Londra, acquistato dal Vaticano anni prima assieme al finanziere Raffaele Mincione (che lo gestiva tramite una sua società) quando era Sostituto il cardinale Becciu. «Ricordo che quando monsignor Perlasca me ne parlò gli chiesi di preparare un appunto per Parolin e informai il Papa». Nel frattempo il Sostituto decise di prendere in mano la questione della trattativa col broker Gianluigi Torzi, che era riuscito a subentrare al finanziere Mincione, nel frattempo uscito dalla società con il Vaticano per scontri e screzi. Torzi era riuscito a far firmare un contratto capestro a Perlasca e aveva mantenuto il controllo del palazzo grazie alle mille azioni con diritto di voto (contro le 30 mila della Segreteria di Stato che ne erano prive). «Tramite Perlasca, mi erano state date rassicurazioni dall'avvocato Nicola Squillace. Ma io credevo fosse il nostro avvocato, e invece era un collaboratore di Torzi». Il tempo intanto stringeva e la Segreteria di Stato era sempre più strangolata dagli interessi passivi che doveva pagare sul mutuo che era stato acceso per l'ingresso nel fondo di Mincione. 

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«Tutto era stato un inganno - ha continuato Pena Parra - e dovevamo reagire. Perlasca suggeriva di avviare una causa, ma sapevo che un processo a Londra per noi avrebbe comportato grossi rischi, anche reputazionali. Si cercò quindi di andare avanti, per uscirne nel miglior modo possibile». Torzi per uscire, ha detto il Sostituto, voleva inizialmente da uno a 3 milioni di euro. Il finanziere molisano lo affermò anche davanti al Papa nella riunione a Santa Marta del 26 dicembre. A fine marzo però le sue richieste erano salite a 25 milioni. «Poi è sceso a 20 e si è concluso a 15». Una cifra capogiro pagata in due tranche, una da dieci e una da cinque milioni, quella somma: «è stata l'esito finale - ha ricordato -. Ci siamo visti costretti, è stato un profondo dolore constatare che dovevamo ancora dare dei soldi per quella vicenda. Ma è l'unica cosa che potevamo fare». 

C'era poi, in parallelo, in quel periodo, la questione del mutuo molto oneroso sul palazzo, «che ci costava un milione di euro al mese, e questo non era possibile: era un crimine usare così i soldi della Santa Sede. E per di più pagando interessi fuori dal Vaticano». Per questo in marzo si chiese il prestito allo Ior, prima promesso e confermato nei mesi - con l'avallo anche dell'autorità di vigilanza Aif - e poi alla fine negato, per il timore, diceva la banca vaticana di incorrere nel riciclaggio. Il finanziamento fu comunque ottenuto ricorrendo all'Apsa. 

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Il presidente del tribunale Giuseppe Pignatone ha domandato a Pena Parra se «monsignor Perlasca, il 22 novembre, chiese a lei l'autorizzazione a firmare il contratto con Torzi o l'ha informata dopo?». Risponde Pena Parra: «L'ho saputo nei giorni successivi. Lui non mi ha mai detto niente. Ho saputo che le cose erano firmate ricevendo i contratti il giorno 24». «Ma Perlasca aveva il potere di firmare?» ha incalzato l'avvocato Luigi Panella, che difende Enrico Crasso, l'altro finanziere che dal 1993 seguiva gli affari del Vaticano al Credit Suisse ma con commissioni “fuori mercato”. «No», è stata la risposta. 

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Tra le altre conferme di Pena Parra rispetto al suo memoriale, quella che negli uffici c'erano «clientelismi e favoritismi, soprattutto verso i fornitori». «C'era un solo fornitore per i rosari, un solo fornitore per altre cose, sempre un solo fornitore. Possibile che non ce ne fossero altri? Ho visitato una fiera di oggetti religiosi e ho conosciuto altri fornitori di rosari, ad esempio, e abbiamo cambiato perché erano più economici». Carenze anche nel rispetto delle norme contabili. «Quando ero in Nunziatura si procedeva secondo un certo metodo e certe regole: questo in Segreteria di Stato non l'ho trovato». Che risposta le diede Perlasca sul fatto che in precedenza non erano state fornite le documentazioni contabili quando le aveva chieste l'Ufficio del revisore generale, su incarico del Papa? «Mi disse che qualsiasi cosa si mandava fuori finiva sempre sui giornali». 

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