PERUGIA - «Quella notte avrei voluto fare di più, andare per strada, urlare, magari chiamare un'ambulanza. Purtroppo avevo 20 anni e la paura mi ha spinto a scappare via». Così Rudy Guede ieri sera ha raccontato la notte del primo novembre 2007, quando nella casa di via della Pergola ha sempre detto di aver trovato il cadavere di Meredith Kercher.
Unico condannato per l'omicidio, 16 anni di sentenza e qualche mese in meno passato nel carcere di Viterbo, ora va in giro per l'Italia a presentare il suo libro “Il beneficio del dubbio, la mia storia”, che ha presentato a Bastia, durante Fa' la cosa giusta negli spazi di “Economia carceraria” con Carmelo Musumeci e il coautore Pierluigi Vito. Prima di incontrare il pubblico, non si è negato alle interviste, raccontando la sua vita dietro le sbarre, la laurea, gli scacchi e ora la nuova esistenza da uomo libero. «Adesso – ha spiegato - sono una persona che ahimè è maturata tra le mura carcerarie. La cosa che mi ha fatto più male? Essere risucchiato in una vicenda più grande di me e in un vortice giudiziario nel quale mi sono visto descrivere come non ero. Il libro nasce per parlare per la prima volta di me stesso e permettere di far conoscere chi sono veramente». «Non voglio fare la cronistoria di quella che è stata la vicenda processuale e la situazione che ho vissuto – ha sottolineato Guede, che ormai vive e lavora a Viterbo -, però ci tenevo a far presente alcune cose, a far conoscere alle persone alcune cose. Quando si entra in carcere ci si porta dietro un bagaglio. Il mio era questo: ho subito una condanna, non sono stato creduto dai giudici, ma gli stessi giudici hanno riconosciuto che ho soccorso Meredith e poi hanno riconosciuto che non ho impugnato io il coltello, che non ho ucciso io Meredith».
E ancora: «Non c’è giorno in cui non pensi agli anni che ho vissuto e a Meredith, mi porto dentro un peso che è quello di non aver fatto il possibile per soccorrerla.