Come per le luci dell’albero di Natale, a quelle cifre è collegato tutto: tagli, investimenti, produttività, ricerca e una parolina che in inglese non fa male e in italiano duole, job, ossia lavoro. Inutile girarci intorno, il tempio del sapere ha un senso con le iscrizioni degli studenti, cartina di tornasole decisiva. Se la ricerca ha un respiro internazionale, la città ha una buona accoglienza, i docenti hanno una professionalità alta, le strutture un’agibilità decente e, soprattutto un peso nel mondo dell’occupazione, loro vengono. Altrimenti vanno. Altrove.
Scontato, si dirà. Eppure per svariati anni l’Universtà si è foderata gli occhi con le sue beghe interne, lacerata da guerre combattute con scudi di cartone e cervelli in fiamme. Sprecando tempo, energia, risorse e le sue autorevoli firme, per offrire il fianco all’omicidio del suo sviluppo, alla fuga dei migliori. Fino al dominio mediocre per non avere avuto il coraggio di fare scelte (anche dolorose), dimenticando quanto fosse importante mantenere, al di là delle beghe provinciali, un’altra parolina magica sempre inglese (sigh), appeal. Ossia, piacere agli altri.
La battaglia tra i fortini delle varie facoltà, il gelo politico tra Ateneo e amministrazione cittadina, ha sfiancato e sbiadito l’immagine della Perugia universitaria. E l’omicidio di Meredtih, la studentessa inglese uccisa in centro, non è stato affatto l’unico motivo di tanto insuccesso, ma spesso il movente per giustificare di non essere riusciti a sentire il vento del cambiamento. Non si disertano le celebrate Università di Roma, Bologna e Milano perché da quelle parti gira cocaina, o perché per regolare i conti dello spaccio i cattivi si sfidano a briscola o a dama, anziché infilzarsi con i coltelli. Si popolano quelle Università perché offronoun biglietto migliore alla lotteria del posto di lavoro. L’impiego non può essere un optional del pensiero universitario da liquidare con un sbuffo formativo. Ma la sua prima occupazione.
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