Vertice a Dubai: è scoppiata la guerra
per il controllo di Internet

Un centro elaborazione dati di Google in Georgia
di Riccardo De Palo
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Venerdì 9 Novembre 2012, 17:50 - Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 17:59
ROMA - Si calcola che entro il 2016 3,4 miliardi di persone in tutto il mondo avranno accesso a Internet. Ma chi avr il controllo di questo enorme flusso di dati, e di potenziali guadagni, in un mercato finalmente globale? Si calcola che il valore di una compagnia come Google, che detiene il 65% del mercato dei motori di ricerca soltanto negli Stati Uniti, si aggiri intorno ai 200 miliardi di euro. Le altre più importanti società che investono e operano con la Rete - Facebook, Microsoft, Cisco, At&T, Comcast, per non parlare di Apple - sono americane. La Icann, la compagnia senza scopo di lucro che assegna i domini Internet, ha la sua sede in California.



Ora, però, i Paesi emergenti, e la stessa Europa, premono per avere voce in capitolo, e poter godere di almeno parte dei profitti. A Dubai, il prossimo dicembre, i 193 Paesi membri dell’International Telecommunication Union (Itu) si daranno battaglia per cambiare le regole del gioco. E non è detto che la supremazia americana sia destinata a continuare.



Gli Stati Uniti sono il Paese dove tutto è cominciato. È stato a partire dalla rete militare Arpanet, che la Rete ha potuto muovere i primi passi. Ma sono stati due ricercatori europei del Cern, Tim Berners-Lee e Robert Cailliau, a inventare il World Wide Web. Internet, sin dalla sua nascita, è stato sinonimo di libertà di espressione, se non proprio di anarchia. Come sarà possibile applicare delle regole valide, che ne regolino la crescita e lo sviluppo, senza snaturarne il senso?

L’Itu è una agenzia dell’Onu fondata nel 1865, quando l’avvento dell’era della comunicazione globale non era neppure immaginabile. È questo organismo a decidere, per esempio, come dev’essere fatta la tastiera di un telefono, o a fissare il numero da comporre per ogni prefisso internazionale. Ma ora, in epoca di cyber-terrorismo e di spionaggio telematico, è chiamata a decidere sulle nuove regole della Rete. E le prime proposte hanno subito provocato una levata di scudi degli Stati Uniti.



L’idea, che ha fatto accapponare la pelle a Google, è di far pagare ai produttori di contenuti l’accesso alle singole reti nazionali, affidate a gestori locali. Una proposta appoggiata apertamente dagli operatori europei, e che favorirebbe, secondo alcune organizzazioni private che hanno voce in capitolo all’Itu, la concorrenza nel settore.

Vint Cerf, «evangelista capo di Internet» per Google, è molto preoccupato. «La libertà di innovare sulla rete - ha detto al Guardian - è stata largamente una conseguenza del suo modello economico e della sua apertura». Proprio per contrastare modifiche agli equilibri attuali, Google ha iniziato - insieme agli altri big americani del settore - una vasta campagna. È in questa chiave che la compagnia di Mountain View ha deciso di mostrare a tutto il mondo le sedi dei propri server, visibili via web (http://www.google.com/about/datacenters/gallery/#/) da tutto il mondo. Attraverso quei computer passa ogni nostra curiosità, ogni nostra ricerca e - spesso - anche le nostre comunicazioni e i nostri dati personali. Si vedono tubi colorati, impiegati e tecnici al lavoro. Un grande colpo mediatico, per la compagnia che predica che si possono fare affari pur «non facendo del male» a chicchessia.



Eppure, è proprio l’egemonia di Google che preoccupa gli organismi antitrust europei. Ma soprattutto sono i Paesi più emarginati, gli africani in testa, a temere di essere tagliati fuori dalla festa. Non solo. Con Internet è in gioco anche la libertà di espressione nel mondo. Le nuove leggi che regolano la Rete e i diritti d’autore sono attualmente bloccate negli Stati Uniti, ma la censura è realtà quotidiana in Cina - dove esiste un onnipresente “Great Firewall” - e in altri Paesi totalitari, come la Siria e l’Iran. Per questo suona come un monito sinistro l’appello di Vladimir Putin per un «controllo internazionale di Internet», basato sulla supervisione dell’Itu. Il capo del Cremlino avrebbe voluto istituire un «codice di condotta» mondiale per la Rete. Finora le sue proposte sono state respinte.
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