Nel Paese africano si estrae il 50% del cobalto mondiale e secondo i documenti raccolti da Amnesty da aree in cui è diffuso il lavoro minorile arriva il cobalto che viene comprato e lavorato dalla Congo Dongfang Mining (CDM), società interamente controllata dal colosso cinese Zhejiang Huayou Cobalt. Di qui il minerale viene venduto a tre produttori di componenti per batterie in Cina e Corea del Sud che a loro volta forniscono le aziende che servono colossi dell'elettronica e delle auto. Il rapporto cita tra queste Apple, Microsoft, Samsung, Sony, Daimler e Volkswagen. Amnesty scrive di aver contattato 16 multinazionali che figuravano tra i clienti dei produttori di batterie con cobalto lavorato da Huayou Cobalt e di queste nessuna sarebbe riuscita a fornire informazioni dettagliate per una verifica indipendente della provenienza del cobalto usato nei propri prodotti. Sony fa sapere all'ANSA di aver adottato dal 2005 un codice col quale chiede anche ai suoi fornitori di rispettare condizioni etiche di lavoro e sottolinea di aver indagato in particolare sulla catena di rifornimento di cobalto e di non aver riscontrato l'utilizzo di minerale proveniente da Katanga, nella Repubblica democratica del Congo.
Alla Bbc Apple ha invece spiegato che sta «valutando» dozzine di diversi materiali, cobalto incluso, per individuare eventuali rischi ambientali e sul lavoro.
Samsung ha affermato che i contratti con fornitori che sfruttano il lavoro minorile vengono «immediatamente interrotti». Secondo dati Unicef citati dal rapporto di Amnesty e Afrewatch sono almeno 40mila i bambini costretti a lavorare nelle miniere di cobalto della Repubblica democratica del Congo, molti anche nel processo di estrazione. Alcuni di questi minori sono stati intervistati e hanno affermato di «lavorare» anche con turni di 12 ore, con una remunerazione fra uno e due dollari. Spesso allo sfruttamento si aggiungono poi abusi fisici, oltre che l'esposizione a polveri e gas pericolosi. «È paradossale che nell'era digitale alcune delle compagnie più innovative e ricche al mondo siano in grado di vendere dispositivi incredibilmente sofisticati senza dover dimostrare da dove arrivano le materie prime per le loro componenti», dice Emmanuel Umpula, direttore esecutivo di Afrewatch.
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