Silvia Romano libera, dal rapimento in Kenya alla gioia del ritorno a casa: «Il mio nome è Aisha»

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​Silvia Romano, 25enne milanese laureata in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, è stata rapita in Kenya mentre era alla sua seconda missione da volontaria. Ora è libera dopo 18 mesi di prigionia: l'ultimo periodo da prigioniera l'ha trascorso in Somalia.

Dal rapimento in Kenya alla gioia del ritorno a casa: «Il mio nome è Aisha». «Ora mi chiamo Aisha e ho scelto spontaneamente di convertirmi all’Islam»: sorride Silvia quando lo dice alla psicologa che la accoglie in ambasciata, a Mogadiscio. Non è un nome qualunque, quello che ha adottato dopo cinque mesi di prigionia, è il nome della figlia di Abu Bakr, primo califfo dell’Islam, considerata la “madre dei credenti” e sposa del profeta Maometto.

L'abito
La decisione è arrivata dopo circa cinque mesi di prigionia, mentre la giovane cooperante milanese veniva portata da una parte all’altra del paese, da un gruppo di carcerieri appartenenti ad al Shabaab, fazione legata ad al Qaeda, ormai dominante in molte parti della Somalia. E rivela un processo lungo e complesso di conversione che le ha fatto scegliere anche di tornare in Italia vestendo una tunica islamica. «Preferisco tenere questa», avrebbe detto a chi le chiedeva se volesse cambiarsi di abito per affrontare il viaggio di ritorno. È scesa dall’aereo con il capo coperto, la mascherina e i guanti anti-coronavirus, con lo jilbab di colore verde acqua, abitualmente indossato dalle donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile, sotto il quale si intravedeva una veste tipicamente africana. Proprio quel verde, colore dell’Islam, ulteriore simbolo della scelta intrapresa. 
«Nessuna forzatura, nessuna pressione - ha ribadito al pm Sergio Colaiocco e al colonnello dei Ros, Marco Rosi, che la hanno interrogata - Sono arrivata alla determinazione di sposare la religione islamica per convinzione. Nel periodo in cui sono stata sequestrata ho chiesto di avere un Corano per poterlo leggere, ma soprattutto per conoscere quale fosse la loro cultura e le loro ragioni. Ho imparato anche un po’ l’arabo. Non ho avuto alcun tipo di violenza, sono stata trattata bene».

La passione
Per capire quanto profonda sia la conversione - che sembra radicata - bisognerà aspettare che metabolizzi il ritorno nel suo paese e ritrovi la sua libertà. Accade spesso che simili scelte siano indotte dalla situazione di rischio e di emergenza in cui una persona si trova. Silvia, comunque, ha sempre amato molto quei luoghi e le persone che ci vivono. A soli 23 anni si trovava nel villaggio di Chamaka a gestire per la onlus marchigiana “Africa Milele”, i bambini di un orfanotrofio. Così giovane, animata da un autentico bisogno di aiutare gli altri. Una passione vera per l’Africa che le avrebbe fatto dire durante il viaggio verso Ciampino: «forse potrei ritornarci». Soprattutto dopo aver saputo che i suoi colleghi della onlus sarebbero felicissimi di poterla rivedere in Kenya.

Ma ci vorrà del tempo prima di prendere qualsiasi decisione. Ora dovrà anche fare i conti con tutta quella schiera di “odiatori” che si sono già messi a tavolino per criticare le sue decisioni. Tante notizie distorte e smentite che la vogliono una volta sposata a un terrorista islamico, un’altra incinta, perché, mentre parla con il premier Conte, con il ministro Di Maio e con il direttore dell’Aise Luciano Carta, si accarezza la pancia, così come fanno le mamme in attesa. Ma non sono vere né l’una né l’altra storia. 
 
I ricordi
Aveva scritto un diario, Silvia-Aisha, durante la sua lunga prigionia. Uno sfogo, un racconto, tutto quello che la mente di giovanissima le ha dettato nei mesi in cui la sua vita è stata veramente in pericolo. Ma i sequestratori, prima di lasciarla andare via glielo hanno preso per evitare, forse, che i ricordi fossero fin troppo nitidi e le indagini potessero, alla fine, arrivare a loro.

La scelta della cooperante di seguire la fede islamica è stata commentata dagli imam che vivono in Italia, quello di Milano si è detto pronto a incontrarla, qualora la sua decisione fosse autentica e sentita. E riguardo all’abito indossato per tornare nel suo paese di origine, Hamza Piccardo, esponente di spicco della comunità islamica italiana, ha ipotizzato: «Probabilmente si è vestita come ha potuto. Vedremo se continuerà così o troverà abiti più consoni al fatto di essere sì musulmana ma anche italiana». 
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