I 90 anni di Nicola Pietrangeli: «Il mio funerale? Nel mio stadio al Foro. Meglio se piove, così rimandiamo anche la morte»

La leggenda del tennis italiano (due volte campione al Roland Garros e due al Foro Italico) in redazione per l'Interrogazione, dopo il passaggio alla mostra dei 145 anni del Messaggero. Perché gli esami non finiscono mai:90 anni sulla carta d’identità, ma in realtà sono 25, per sempre.

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Martedì 5 Settembre 2023, 19:32 - Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 16:54

di Giacomo Rossetti

Nicola Pietrangeli, la leggenda del tennis italiano (due volte campione al Roland Garros e due al Foro Italico) in redazione per una Interrogazione. Dopo il passaggio alla mostra dei 145 anni del Messaggero. Perché gli esami non finiscono mai. Novant’anni sulla carta d’identità, ma in realtà sono venticinque, per sempre. Nicola Pietrangeli ieri ci ha fatto visita al Messaggero, tre quarti d’ora a ruota libera tra racconti e segreti, svelati con ironia e brillantezza. Colui che è ritenuto uno dei migliori tennisti di sempre ha mantenuto inalterato lo spirito di quando dominava sui campi, faceva innamorare le donne e frequentava i grandi del cinema.


Lei ha sempre risposto, a chi le diceva che con un allenamento migliore avrebbe potuto vincere di più, che si sarebbe divertito molto di meno.
«Se ci fossero stati i premi attuali, sarei andato a dormire alle 10 di sera. Ma io all’epoca “abitavo” al Crazy Horse (celebre locale di cabaret parigino, ndr). Ero diventato amico del proprietario, mi diceva ‘Vai a vedere come va la sala”. Mi fece conoscere la bellissima Candida, che sotto la pelliccia non indossava niente, e sempre lui una volta mi buttò in una stanza con otto ragazze nude! Ma non ero ancora sposato. Alla Capannina, invece, avevo un conto aperto al bar: privilegio riservato solo a me, all’avvocato Agnelli e all’industriale Marzotto. Vagliela a spiegare a Federer, una roba del genere!».

 


Come ha vissuto l’essere protagonista delle cronache mondane dell’epoca?
«Mi dicevano che facevo la dolce vita, ma non è vero, io a via Veneto non sono mai stato, perché d’estate giocavo. Forse d’inverno qualcosa, magari… Ho sempre preferito una donna bella che mi diceva di no a una brutta che mi diceva di sì. Ma le donne amano le uniformi: se sei presentabile, giochi bene a tennis, sei vestito di bianco su di un campo rosso, qualche vantaggio ce l’hai».


Che rapporto ha avuto con il grande cinema?
«Ho girato cinque film, ma senza dire una battuta. Per tre anni ho frequentato Marcello Mastroianni. L’uomo più simpatico e meno divo del mondo. Ero a casa sua, e rispondevo al telefono quando lo chiamavano da Los Angeles per offrirgli ruoli in film in cui serviva parlare inglese. Lui rifiutava sempre, anche se il cachet era importante. Una volta gli offrirono 500mila dollari, una cifra spropositata all’epoca: Marcello rifiutò, “non me ne frega niente”, disse. Il film era “Il Dottor Zivago”, per cui Omar Sharif, di cui divenni amico, prese… 200mila dollari e diventò un mito».


Si è riaccesa la polemica con Adriano Panatta dopo le vostre interviste nei giorni scorsi.
«Io non l’ho mai insultato, mai. Lui invece in passato l’ha fatto, anche pesantemente. Adriano io l’ho visto nascere, insieme abbiamo vinto la coppa Davis del ’76. Ci separano 17 anni: nello sport, sono due generazioni di differenza. Io non ho mai detto di essere più forte di lui, ma se gli va possiamo aprire un libro e leggere insieme i nostri risultati».


I vostri cammini sono legati: entrambi fortissimi, entrambi romani.
«Il giorno che nacque Adriano ero al Tennis Club Parioli e arrivò Ascenzio, suo padre e nostro amico, dicendoci che gli era nato un figlio. Vedevamo sempre questo bambino attaccato alla rete a guardarci. Poi Adriano lo ritrovai ragazzino, quando al Tre Fontane mi venne segnalato un piccolo tennista diverso dagli altri. Nel 1968 ai campionati italiani a Milano lo affrontai che era campione juniores. Mi stava battendo con le palle corte e mi dava del lei. Poi mi disse “La saluta papà”. E io: “E chi è?”. “Ascenzio”. Esclamai: “Oh Dio, ma tu sei Ascenzietto!”. Lo chiamavamo così».


La sua passione per il pallone è nota: da ragazzo nelle giovanili della Lazio, al vanto di essere stato tra i primi a portare il calcetto in Italia. 
«Una volta chiesi a Maestrelli se potesse farmi fare una partitella con la Lazio. Mi presentai: Chinaglia, Oddi, Pulici, mi davano tutti del lei! Con Dino Zoff è un altro capitolo: un giorno, in partitella con la Juve, gli feci due gol, uno di pallonetto. Negli spogliatoi lo sfotterono e lui per vendicarsi mi fece riempire di botte da Francesco Morini nella partitella successiva!».


Nel 1960, l’anno dei Giochi di Roma, era nel pieno della carriera.
«Ricordo che avevo in tasca i 5000 dollari - all’epoca ti ci compravi una Ferrari - per diventare professionista, ma il discorso sul dilettantismo di Consolini mi fece piangere e strappare il contratto».


Cosa può dire della Coppa Davis in Cile e della maglia rossa?
«Che lì la nostra squadra giocò in rosso perché alcuni volevano far credere di fare così un dispetto a Pinochet, ma pochi sanno che in realtà Panatta aveva vinto a Parigi con una maglia rossa… Tanto che nessuno si è mai chiesto perché chiudemmo il torneo in maglia blu!».


Cosa prova a pensare che lo Stadio più bello del Foro Italico, quello con le statue, è dedicato a lei?
«Bello come quello non ce ne sono altri al mondo. Mi ricordo quando Gianni Petrucci e Angelo Binaghi mi chiamarono per “farmi un regalo”. Gli chiesi perché non mi intitolassero il Centrale, appena costruito. Mi spiegarono che questo si poteva buttare giù , mentre quello dei Marmi è monumento nazionale e non si può toccare».


Perché il suo libro si chiama “Se piove, rimandiamo”?
«Parto col dire che il mio funerale, fra mille anni, si farà allo stadio Pietrangeli. Innanzitutto, perché c’è parcheggio, poi perché ci sono tremila posti seduti. Mi dispiace che non potrò assistere, per vedere chi viene e chi non viene. In caso piovesse, appunto, potremmo rimandare, mettendo la bara nel sottopassaggio. La musica la sto ancora decidendo, anche se “My way” all’uscita non sarebbe male».

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