Era ora di finirla, con questa farsa in mondovisione, anche se da centinaia di milioni di dollari. Era ora di riappropriarsi di se stesse, o almeno provarci, in ogni caso auguri di cuore, non sarà facile. Le due regine dell’Olimpiade vivono fino in fondo il dramma umano più complesso: il disperato vano tentativo di farci accettare per come siamo e non per come ci vedono gli altri, e al tempo stesso il tormento di dover rispondere alle attese, mentre però tutto il nostro vissuto, tutto ciò che ci è accaduto fin da piccoli, stringe alla gola come un cappio. In più, ai Giochi, c’è il peso delle responsabilità da favorite, e intorno l’assurdo e inumano cancan dei social, che vivisezionano scandagliano e umiliano, e rendono il mondo asociale, perfido, in definitiva invivibile.
Simone Biles fuori dalla finale: «Ho il peso del mondo sulle spalle»
Così le regine se ne vanno, non ne possono più. Anche se Simone Biles, ginnasta, è una delle 100 persone più influenti al mondo secondo il Times e Naomi Osaka, tennista, la sportiva più pagata del pianeta.
«UNO SCHIFO»
Naomi Osaka, numero 2 del mondo ed ex numero 1, che in primavera aveva lasciato il Roland Garros poi rinunciato a Wimbledon per accumulo di stress, ma si è presentata alle Olimpiadi anche per evidenti motivi di marketing: ultima tedofora e accensione del braciere sacro. Ma dopo due vittorie timide, ieri prende 6-1 6-4 dalla ceca Vondrousova. Poi ammette: «E’ una delusione che fa schifo. Non ho retto la pressione», e scappa con le lacrime che affiorano. Nata da padre haitiano e madre giapponese, vive negli Usa e i giapponesi non l’hanno mai accettata davvero come compatriota, per loro è sempre una “hafu”, cioè figlia di un genitore straniero: tempo fa un suo sponsor addirittura la raffigurò in uno spot con la pelle “sbiancata” per farla piacere al pubblico. Poi però qui ai Giochi doveva rappresentare la riscossa del Giappone, e quindi, ragazza: partecipa, gioca, corri, sorridi e accendi il braciere, la nazione e gli sponsor ringraziano. Ma c’è un limite a tutto, diamine. Rinunciare è l’unica salvezza, il più alto grido di dolore, l’autolesionismo supremo per protestare contro ingiustizie soverchianti. Laggiù lo chiamano harakiri.