Vale più Giovanni Sartori o Joshua Zirkzee? Bella lotta, il patron Joey Saputo e l’ad Claudio Fenucci sanno già cosa scegliere. Di sicuro non esisterebbe questo emozionante Bologna senza quei due lì. Diciamo che Sartori è il sarto, Zirkzee il modello. O uno dei tanti modelli. La sfilata bolognese è lunga ed è appena cominciata. Quella di Sartori parte da molto lontano. Non è stato un grande calciatore, ma il campo lo ha vissuto, erano gli anni ‘70-‘80, l’Italia era il punto di riferimento del calcio europeo. Sartori ha riempito il suo bagaglio, ha affinato l’occhio, anche da (modesto) allenatore. Oggi, forse (ma anche senza il forse), è considerato il miglior direttore sportivo italiano e, forse (ma anche senza il forse) tra i top in Europa. E’ l’uomo dei miracoli: di Chievo, Atalanta e ora Bologna. Non Milan, Juve e Inter, tanto per intenderci. Schivo, di poche parole, le sue interviste negli anni si contano sulla punta delle dita. Lui preferisce stare dietro la scrivania, non si atteggia a dirigente glamour, non ha bisogno del doppio telefono al polso, sa perfettamente che ore sono in Argentina e se c’è una partita apparentemente insignificante da controllare.
NO SOCIAL, NO WHATSAPP
Ha scelto di essere normale che, come diceva Lucio Dalla, bolognese doc, è impresa eccezionale. L’unica, oggi. Non è uno social, non comunica con WhatsApp. Non ha bisogno di mettere il faccione davanti a una telecamera per ricevere complimenti e applausi. Scava nell’ombra, e trova sempre qualcosa. Nato a Lodi, il 31 marzo del 1957, è uno degli ultimi dirigenti vecchia maniera, un po’ Corvino, un po’ Perinetti. Non è uno da algoritmi, tanto cari da queste parti: vede dal vivo un centinaio di partite all’anno, perché il talento va annusato, vissuto, accompagnato, pagato, possibilmente poco, e poi venduto, possibilmente a tanto (un paio di esempi: Kulusevski, comprato a 200 mila euro e venduto alla Juve a quasi 45, bonus compresi, o più indietro ancora Kessie da 1,5 a 30). Fa ricche le società e le porta a toccare vette mai raggiunte.
CENTO PARTITE
Il miracolo Chievo porta la sua firma. A Verona da 1992, per intuizione di Luigi Campedelli, il papà di Luca. La squadra è in C1, e la scalata è inevitabile: serie B nel ‘94, serie A nel 2001, sei anni dopo, nel post Calciopoli, quella squadra di quartiere approda al preliminare di Champions, dopo aver raggiunto la Uefa.