Cafu: «La mia storia con la Roma, il sombrero a Nedved e quel rigore negato contro il Milan»

Intervista al doppio in ex in vista di Milan-Roma di Europa League: "Il più forte con cui ho giocato? Ronaldinho, ma anche Totti..."

Cafu: «La mia storia con la Roma, il sombrero a Nedved e quel rigori negato contro il Milan»
di Stefano Carina
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Lunedì 8 Aprile 2024, 08:14 - Ultimo aggiornamento: 9 Aprile, 07:30

Quando giocava, difficilmente il Pendolino faceva fermate. Oggi, a 53 anni, Marcos Cafu ha fatto sosta a Mosca. Tappa temporanea, per premiare uno degli sportivi russi dell'anno. Giovedì però si gioca Milan-Roma, andata dei quarti di finale di Europa League. È la sua partita, avendo vestito sia la maglia giallorossa che rossonera.
È vero che alla Roma fu Falcao a consigliare il suo acquisto?
«Probabile, perché Paulo è stato il mio primo allenatore in Nazionale. So che gli chiesero delle informazioni sul mio conto».
Quando sbarcò in Italia, correva sulla fascia toccandosi il naso. Lo fa ancora?
«No, finalmente sono riuscito a togliermi questo vizio (ride). Alla quarta operazione al naso non lo faccio più. Era un problema legato alla respirazione».
Giovedì c'è Milan-Roma. Un ricordo al quale è legato particolarmente nelle due avventure?
«Visto che il derby s'è giocato sabato, penso subito al sombrero a Nedved. Ogni volta che incontro un tifoso giallorosso mi chiede sempre come ho fatto».
E cosa risponde?
«Che è stato un gesto naturale. Come dovrebbe essere il calcio».
Dica la verità, si sente più romanista che milanista.
«Non mi metta nei guai, per favore (ride). No, no, sono stato benissimo sia a Roma che a Milano».
Cafu non le ho chiesto se vuole più bene a mamma o papà, un piccolo sforzo.
«Allora, sono stato 6 anni a Roma ed è stato un periodo pazzesco. Con quella squadra rimarremo per sempre nella storia. Quando sono andato al Milan, inizialmente sembrava più facile vincere. Poi ci siamo riusciti ma non è stato facile. È chiaro che Roma ha rappresentato la mia casa subito dopo aver lasciato il Brasile, ho giocato la Champions per la prima volta, non può non avere un posto speciale nel mio cuore».
E allora perché ad un certo punto ha deciso di salutare?
«Perché purtroppo le cose finiscono. La Roma con me era stata chiara, spiegandomi che voleva cambiare e puntare su ragazzi più giovani. Ho accettato la scelta e avevo deciso di fare un'esperienza diversa. Per questo motivo avevo firmato con lo Yokohama, squadra giapponese. Poi un giorno mi chiama Leonardo e mi passa Braida che mi dice che Ancelotti mi vuole al Milan per due stagioni. La mia prima reazione è stata: "Ma siete sicuri? Io ho quasi 33 anni, lo sapete?". E loro, "Sì, sì ti proponiamo un biennale". Con queste premesse era impossibile rifiutare. Alla fine ho fatto bene, i due anni sono diventati cinque e ho vinto uno scudetto, un mondiale per club, la Supercoppa, ho disputato due finali di Champions, vincendone una. Poteva andare peggio».

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Quella persa a Istanbul, da 0-3 a 3-3 con il Liverpool, è uno dei misteri insoluti del calcio. Ma cosa accadde?
«Caspita, non mi ci fate ripensare... È stata una finale strana, atipica, perché il Milan in quella stagione non aveva mai subito tre gol in una gara. In quel caso li prendemmo in 6 minuti. Non lo so, andammo completamente in tilt. Forse alla fine del primo tempo, una volta dentro gli spogliatoi, ci siamo sentiti troppo tranquilli. Puoi fare tutti i discorsi che vuoi, ma tre gol a quel Milan sembrava impossibile segnarli. Dopo il 3-3 non riuscivamo a crederci. C'è poco da dire, complimenti al Liverpool, riuscirono in un'impresa incredibile».
Tornando alla sua esperienza romana, lei conobbe il primo De Rossi, quello che si affacciava in prima squadra. Se l'aspettava che prima o poi potesse allenarla?
«Sono sempre molto felice quando vedo i miei ex compagni fare bene. E vedere Daniele oggi guidare la Roma e pensare a quel ragazzino che con noi giocava poco e ora è l'allenatore della squadra che ama, non può che farmi piacere. Il calcio è veramente incredibile. Mi fa impressione chiamarlo mister. Direi una bugia se affermassi che mi aspettavo che sarebbe diventato un allenatore. Posso però dire che è sempre stato un ragazzo molto intelligente, uno che studiava e soprattutto molto curioso. Gli auguro tutto il meglio possibile, se lo merita, perché è uno che ha lavorato e studiato per essere dove siede adesso».
A proposito di ex compagni, Tommasi qualche tempo fa disse che se avesse potuto scegliere un suo ex compagno da inserire nella giunta del Comune di Verona, avrebbe indicato lei.
«Davvero? No, non sono un politico. Damiano è un ragazzo d'oro, con lui è nata una vera amicizia. È uno che il calcio non doveva lasciarsi scappare. Serio, preparato, onesto, poche persone ho conosciuto come lui nella mia vita. Lui sa che in qualsiasi parte del mondo mi trovassi, se dovesse avere bisogno di me, sarei disponibile ad aiutarlo. Ma la politica no, non fa per me».
Ok, no alla politica. E invece ha mai pensato di allenare?
«Per adesso no. Magari cambio idea dopo il mondiale del 2026».
Il suo amico Ancelotti è stato vicino alla panchina del Brasile. Cos'è che non è scattato visto che anche il presidente Lula si è espresso contro il suo arrivo?
«Al di là che ognuno può avere una sua opinione, non possiamo pretendere che tutti la pensino nello stesso modo. Poi, nel caso di Carlo, penso che ci sia stato un equivoco di fondo. Lui non ha mai detto una parola su questa possibilità, in Brasile non abbiamo mai letto o sentito un'intervista nella quale si esprimeva a favore di questa ipotesi. Così nell'opinione pubblica è scattato il dubbio se Ancelotti fosse contento e l'uomo giusto per guidare la Seleçao. Se avesse detto "Mi piacerebbe allenare il Brasile" sarebbe stato tutto diverso. Però lo capisco, magari non aveva ancora nulla di concreto. Ora, io da brasiliano, mi auguro che prima o poi possa accadere».
Può essere l'allenatore giusto per plasmare Endrik? Che ne pensa del ragazzino?
«È fortissimo. Chiaramente è giovane e bisogna avere pazienza ma se continua così può diventare il futuro numero 1 al mondo. E andare a Madrid e trovare Carlo non potrà che giovargli».
Lei ha giocato con tanti campioni. Il podio dei migliori?
«Il più forte di tutti è sicuramente Ronaldinho Gaucho. Quello che gli ho visto fare con il pallone, non è spiegabile. Poi viene Ronaldo il Fenomeno. Se non si fosse fatto male avrebbe battuto ogni record. Il terzo? Sono proprio in difficoltà. Perché ho giocato con gente veramente forte. Da Shevchenko a Rivaldo, passando per Seedorf, Pirlo, Totti, Djalminha, sono tantissimi. Per un periodo ho pensato anche che Pato potesse diventare il centravanti più forte del mondo. Se proprio sono costretto a dire un nome, scelgo Totti. Sì, Francesco se lo merita».
Lei è anche l'uomo dei record. Quello al quale è più affezionato?
«Nella mia carriera qualcosa ho vinto... Due mondiali, due coppe America, una Confederations cup, due scudetti in Italia, uno in Brasile, una Champions, due Supercoppe italiane, due Libertadores, due Recopa Sudamericana, una Supercoppa sudamericana, due Intercontinentali più la coppa del Mondo per club, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea... chissà se dimentico qualcosa. Eppure il record al quale sono più affezionato non è nemmeno essere il record man di presenze nella Seleçao ma essere l'unico calciatore della storia ad aver giocato tre finali mondiali consecutive».
Vincendone anche due.
«Sì, era un dettaglio (ride). Penso che tre finali di fila nemmeno un massaggiatore ci sia mai riuscito».
Oggi chi sono i terzini destri più forti al mondo?
«A me piacciono Walker del City, Hakimi del Psg e Alexander Arnold del Liverpool».
Ma cosa ci fa a Mosca?
«Sono qui per premiare gli sportivi russi dell'anno. È come se si trattasse dell'Oscar dello sport. Non potevo però dire di no, anche per degli sponsor».
A tal proposito, come procede la causa con la Roma?
«A me dispiace tanto, perché sapete l'affetto che ho per la Roma e Roma, una squadra e una città che mi hanno dato tantissimo. Gli avvocati stanno andando avanti, anche se in cuor mio spero che si possa risolvere nel più breve tempo possibile».
Nelle tante sfide giocate tra Roma e Milan, c'è un episodio particolare che ricorda?
«Sì, un fallo di mano di Seedorf a San Siro non sanzionato dall'arbitro. Era rigore, avremmo probabilmente vinto quella partita e il secondo scudetto consecutivo».
Ci salutiamo con un pronostico?
«No, non ci casco.

Dasvidania!».

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