“Banco, l'urlo del Palaeur”
Il libro di Pelosi e l'emozione Roma

“Banco, l'urlo del Palaeur” Il libro di Pelosi e l'emozione Roma
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Mercoledì 11 Luglio 2012, 21:26
ROMA – La passione di una minoranza che in una stagione dorata ha contagiato e avvicinato l’intera citt di Roma alla pallacanestro. Il libro firmato dal giornalista Luca Pelosi ripercorre la storia vincente del Bancoroma, che nel cuore degli Anni Ottanta ridisegnò la geografia cestistica italiana con l’unico tricolore (1983) vinto dal club capitolino e si prese l’Europa nella notte magica di Ginevra (1984). «Abbiamo l’obbligo morale verso il basket - tuonava Bianchini - di portare lo scudetto fuori dalla Lombardia e dall’Emilia». «È la più anomala delle passioni sportive - annota l’autore - che ti fa leggere i giornali al contrario e non ti fa mai andare via prima della fine, perché non c’è il problema del traffico. È fare cose senza senso. Andare a Settebagni per un’amichevole del 14 agosto, a Ginevra per la Coppa Campioni o a Reggio Calabria per retrocedere». Un sentimento nato trent’anni fa grazie a successi che sfuggono all’usura del tempo.



La ricerca di Pelosi. Pelosi, in un volume costruito con una ricerca emerografica sostanziosa e raccogliendo le testimonianze di diversi protagonisti dell’epoca, dà la misura della grandezza di una società che forgiata dal presidente Eliseo Timò seppe scendere sul territorio e sviluppare un forte senso di appartenenza. «Prima di tutto abbiamo lavorato per legarci alla città (dal 1982 all’88 la presenza media di spettatori non andò mai sotto quota cinquemila con un picco di 8056) - dice Timò nell’intervista che chiude il lavoro -. Stringevamo accordi con le altre realtà locali, da cui potevamo prendere i migliori giovani». Così vide la luce la squadra dei romani: il capitano dello scudetto Roberto Castellano, unico prodotto del vivaio del Banco; il talento puro del testaccino Enrico Gilardi che mosse i primi passi all’oratorio di Santa Maria Liberatrice; il playmaker di Monteverde Stefano Sbarra «mancino, veloce e furbo»; il gancio cielo di Fulvio Polesello riportato da Vigevano nella Capitale. E poi un bresciano, Marco Solfrini, il «Doctor J italiano, perno fondamentale degli anni d’oro del Bancoroma». «Eravamo un gruppo unito. Chi per un motivo, chi per un altro, avevamo voglia di vincere. Creammo un mix perfetto. Avevamo una voglia quasi esagerata», testimonia Sbarra. Il Vate. «Scelsi Bianchini perché avevamo bisogno del massimo». Timò sintetizza con queste parole la necessità di affidare un’ambizione nelle mani giuste. Valerio Bianchini era la guida, dentro e fuori il parquet, di cui aveva bisogno la società per assecondare i suoi propositi di successo. Pelosi riporta alcuni aforismi del coach da gustare: «Il Bancoroma è lo Stato nascente. Siamo i rivoluzionari che danno l’assalto al potere centrale. Ho detto ai miei giocatori: lo scudetto è libertà. Abbattiamo il despota Billy che ci impedisce di essere liberi». O ancora i duelli tecnici e verbali memorabili con Dan Peterson: «La mossa di Gallinari su Wright è andata bene perché era molto semplice». «Peterson vede le cose solo da un verso e ampliate - ribattè Bianchini -. L’entrata di Gallinari è stata negativa per noi, come lo è sempre per il gioco del basket». La zona Wright. Pelosi dedica un capitolo al simbolo in cui si è identificata una tifoseria intera: Larry Wright, il playmaker della Louisiana che odiava la sconfitta. Capricci, virtù e solitudini del campione con la canotta numero 4, oggi insegnante in una scuola media, che non ha mai dimenticato l’affetto ricevuto. Come la gente non scorderà mai il suo secondo tempo nella finale di Coppa Campioni contro il Barcellona.
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