Una squadra di detenuti si allenerà per un anno a Trieste, agli ordini di quattro campioni, per essere poi pronta a scendere sul parquet. Il progetto si chiamerà “The Cagers”, richiamando l’originario nome degli atleti che giocavano a basket quando questo sport fu inventato da James Naismith nel 1891. Allora le partite si disputavano in una gabbia, in inglese appunto cage, e prima di chiamarsi con il nome attuale , la pallacanestro era definita “the Cage Game” ovvero il gioco della gabbia. Le partite si disputavano all'interno di alte recinzioni: lo scopo era quello di proteggere gli sportivi dal lancio di oggetti da parte del pubblico.
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Le gabbie, a distanza di 132 anni, esistono ancora e quelle del carcere ne sono l’esempio più classico. Uno staff tecnico composto da Federica Zudetich (ex giocatrice di Cesena, Porto Sant'Elpidio, Alessandria, Reggio Emilia, Faenza e Cagliari), Stefano Attruia e Donato Avenia (che ha giocato nella Virtus Roma, ma anche a Rieti e Palestrina solo per restare nel Lazio), con Francesca Zara, unica italiana ad aver vinto la prestigiosa Eurolega e che si occuperà della preparazione atletica, ha cominciato a girare le carceri italiane alla ricerca di detenuti/giocatori in grado di fare la squadra con le selezioni e le tante storie diverse.
Sarà Trieste la sede scelta per questa avventura dei "Cagers", sostenuta dal ministero della Giustizia e dal ministero per lo Sport e per i Giovani. Lì ci si allenerà come una squadra professionistica per togliere ruggine dalle articolazioni, dare forza ai muscoli, iniziare a prendere confidenza con la palla ed i fondamentali. Obiettivo: costruire, passo dopo passo, una squadra. Giochi a due, a tre, a quattro, fino al cinque contro cinque.
«Ero in visita a Trieste per incontrare i detenuti, dentro la casa circondariale della città - spiega Stefano Attruia, play maker che ha vestito anche la maglia della Virtus Roma e vinto una Coppa Korac e una Coppa Italia -. Sento una voce che mi chiama. Mi giro e incontro un volto inaspettato con gli occhi di sempre, gli occhi di quando eravamo bambini. Il nostro abbraccio muove una sensazione: portare la palla oltre il muro per avvicinare questo contesto alla comunità sociale è una naturale conseguenza. Quello che possiamo fare noi allenatori, dentro e al di là del muro, è metterci al servizio degli altri portando tutto l’amore che abbiamo per questo sport».