Nessuno, i compagni da Emiliano Busca, il capitano, a Tonolli a Walter Magnifico, da Ambrassa a Carera e Pessina, agli amici poteva immaginare un epilogo tanto drammatico. «Ci siamo resi conto dopo quanto fosse grave. Che sofferenza quei giorni all’ospedale, momenti strazianti. Mi rimane di Davide l’immagine di un ragazzo che aveva voglia di fare grandi cose. Era lì, con noi, dopo i due giorni di vacanza che avevo concesso alla squadra. E in quella partita, nei pochi minuti giocati, aveva mostrato tutte le sue qualità».
Roma ha accompagnato il suo Davide nell’ultimo viaggio a Mestre e poi nel piccolo cimitero di Favaro Veneto dove riposa, vegliato da un angioletto che papà Giovanni ha lasciato sulla lapide.
Davide prima di essere il campione era l’amico. Sapeva conquistare tutti con il suo sorriso, la sua voglia di essere leader. Un sognatore che faceva sognare i tifosi, sempre. Al Palazzetto, stagione 96-97, nei quarti di finale della Coppa Korac contro la Benetton Treviso in una serata per lui splendente, firmano il +10, si rivolse ai suoi fans con il gesto del cow boy che estrae la pistola. Al ritorno, con Treviso capace di capovolgere la sfida, lo stesso gesto da pistolero lo fece il suo amico Riccardo Pittis trascinando i tuttiverdi al successo.
Dalla sua Mestre a Desio, catturato dal fiuto di Pier Aldo Celada, quindi a Caserta dove ha debuttato in serie A nel ’91 a soli 17 anni e poi a Pistoia alla corte di un maestro come Dule Vujosevic prima di approdare a Roma, all’inizio del ’95 quando aveva già debuttato in nazionale, a Helsinki contro la Finlandia chiamato in azzurro da Ettore Messina che stravedeva per quella giovane guardia di grande talento.
Le parole, come i numeri e il talento, non servono per ricordare Davide Ancilotto, il campione entrato nel cuore di tutti quelli che lo hanno conosciuto. La Virtus Roma, in suo onore, da quel drammatico 1997, ha ritirato la maglia numero 4, quella del cow boy Davide.
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