Jude Law e il suo Young Pope: «Io, Papa bello e impossibile»

Jude Law e il suo Young Pope: «Io, Papa bello e impossibile»
di Gloria Satta
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Giovedì 20 Ottobre 2016, 09:54 - Ultimo aggiornamento: 19:24

Se ti chiami Jude Law, hai un talento esplosivo, una faccia che buca lo schermo e una classe innata, sei elegante anche se indossi dei calzini rosa e un foulard fiorato al posto della camicia. «Buongiorno!», esclama in italiano l'attore inglese, 43 anni e una carriera al top che l'ha portato a interpretare, con identica credibilità, il seduttore seriale di Alfie, il torbido amante di Closer, il fascinoso Sherlock Holmes. Ma è nella parte spiazzante di un immaginario Papa americano, Pio XIII al secolo Lenny Belardo, che lo vedremo da domani su Sky Atlantic HD nella portentosa serie in dieci puntate di Paolo Sorrentino The Young Pope, coproduzione internazionale firmata Sky, Canal + e Hbo, venduta in tutto il mondo, e di cui il regista premio Oscar sta scrivendo la seconda stagione.
Vita privata tormentata (ha cinque figli da tre donne diverse), voce sexy forgiata in teatro, Law è l'emblema della seduzione. I suoi occhi azzurri esprimono curiosità e intelligenza, la stessa del suo Papa controcorrente: arrogante, fumatore, innamorato del potere, intessuto di contraddizioni e in lotta con la curia rappresentata dal machievellico Voiello interpretato da Silvio Orlando.

Law, ha incontrato Papa Francesco per prepararsi?
«Sono andato ad ascoltarlo una volta a San Pietro. Ero nel panico e pensavo che, per entrare nel ruolo, dovessi imparare la storia dei Papi. Poi ho capito che bastava affidarsi a Sorrentino. Il compito di un attore è capire cosa vuole il regista. E la sua sceneggiatura era chiara».

Pio XIII, così pieno di contraddizioni, riflette i suoi personali tormenti?
«Più che altro mi ha aperto gli occhi sul mio rapporto con la fede, mi ha spinto a pormi delle domande».

E a quali conclusioni è arrivato?
«Non sono cattolico, ma sul set ho imparato molto sul rapporto tra religione e società. La fede aiuta a vivere ma non si identifica necessariamente con la religione».

Pensa che Bergoglio sia un Papa rivoluzionario?
«Il suo percorso è ancora lungo, non puoi giudicare un libro dalla copertina. Ma io, pur non facendo parte della Chiesa, mi sento accolto e trovo che Papa Francesco abbia più coraggio di tanti leader internazionali».

Qual è stata la sfida più difficile sul set?
«Esprimermi in latino! Sa, non ho fatto studi sofisticati... Un'altra scommessa era sedurre il pubblico e tenerlo inchiodato per dieci puntate. Mica facile».

Quanto conta, nel comportamento del suo personaggio, il fatto di essere orfano?
«È la chiave dell'identità di Belardo che dice: Non posso trovare Dio se non trovo mio padre e mia madre. Da piccolo ha avuto uno choc emotivo. Mi sono sentito vicino a lui, è qualcosa che conosco bene».

Come mai?
«Entrambi i miei genitori sono orfani e hanno avuto un'infanzia traumatica, proprio come il mio Papa. So cosa significa vivere con il peso di questo dolore».

Ha appena interpretato Re Artù nel film di Ritchie Kings of the Roundtable. Un personaggio di potere è più stimolante per un attore?
«In tutti i miei ruoli cerco le contraddizioni. Un re e un papa hanno il potere, certo, ma possono essere psicologicamente deboli, mentre in un mendicante può nascondersi un ego smisurato. L'importante, per un attore, è trovare l'equilibrio tra luci e ombre».

La bellezza è un potere? E ha aiutato la sua carriera?
«Ho sempre avuto un rapporto... scomodo con il mio aspetto fisico. E parlarne, mi creda, mi imbarazza un po': è come confermare che è speciale. Da giovane pensavo che la bellezza intralciasse il mio lavoro, costringendomi a lavorare il doppio per dimostrare che ero bravo».

E oggi?
«Ho capito che la bellezza, in certi casi, può avermi aiutato. Ma non ci penso più: è il modo migliore per definire chi sono e quanto valgo».

Ha vissuto otto mesi a Roma: che impressione ha avuto?
«Mi sono sentito a casa. Abitavo vicino al Campidoglio, ogni mattina andavo a correre intorno al Circo Massimo. Il sole, la competenza della troupe, la gentilezza delle persone: a Roma ho vissuto un'esperienza eccezionale».

Cosa la spinge a scegliere i progetti?
«Il punto di partenza è sempre il regista. Se ha il talento e la sicurezza di Sorrentino la mia adesione è automatica. Poi considero la sceneggiatura: non voglio ripetermi. Infine viene il contenuto. Dev'essere intelligente».
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