Bryan Cranston dopo Breaking Bad: «Ora scrivo serie per i ragazzi schiavi dei social»

Bryan Cranston dopo Breaking Bad: «Ora scrivo serie per i ragazzi schiavi dei social»
di Ilaria Ravarino
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Martedì 3 Aprile 2018, 08:28 - Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 11:47
Esattamente dieci anni fa, mentre negli Stati Uniti andavano in onda i primi episodi di Breaking Bad, Bryan Cranston non poteva immaginare che quello show gli avrebbe cambiato la vita. Il ruolo da antieroe di Walter White lo avrebbe reso così famoso da farlo diventare un meme - insieme al cappello, il deserto del New Mexico e la metanfetamina - della cultura popolare. Un'icona pop che adesso, a 62 anni appena compiuti, con una nomination all'Oscar e una collezione di Emmy e Golden Globes sugli scaffali, si leva qualche sfizio. Come dare la voce a un cane ne L'Isola dei cani di Wes Anderson, in uscita a maggio («Per Wes farei tutto, anche andare a casa sua a lavargli i piatti»), e produrre lui stesso due serie tv, The Dangerous Book for Boys e Sneaky Pete, ora alla seconda stagione. Due show distribuiti da ieri su Amazon, entrambi legati alla sua storia personale: «Sono la risposta in positivo a Breaking Bad».

Scrive, produce e dirige. Ma in queste serie non recita. Sta pensando di smettere?
«Mai, recitare mi piace troppo, lo farò finché mi divertirà e finché sarò in grado di ricordarmi i dialoghi. Certo, sono stanco. È da settembre che sono a teatro in Inghilterra. Ma penso che ancora ne valga la pena».

Sneaky Pete lo ha scritto lei, ed è la storia di un truffatore. Gli eroi negativi, evidentemente, le piacciono.
«Fin dal primo momento volevo che Sneaky Pete fosse l'esatto opposto di Breaking Bad. Walter White era un brav'uomo la cui identità finisce per disintegrarsi in un mondo di cui all'inizio non sapeva nulla: l'ego, la superbia e l'avidità lo fanno diventare un mostro. Qui volevo fare il contrario. Volevo un protagonista cattivo che piano piano trova nella vita le motivazioni giuste per diventare buono. È una serie ricca di speranza, con un protagonista a suo modo nobile, diventato quel che è semplicemente perché non ha mai avuto la possibilità di essere diverso».

E The Dangerous Book for Boys? Perché una serie tratta da un libro per bambini?
«Volevo scrivere per le famiglie. Cercavo una storia che fosse divertente, dolce ma anche piena di avventura. Quel genere di programma che vorresti guardare seduto sul divano, godendotelo con i tuoi figli».

Lei che bambino era?
«A casa avevamo una sola televisione ed era spenta praticamente sempre. I miei erano molto attenti alla selezione dei programmi. Passavo le giornate fuori casa. Andavo molto in bicicletta. Usavo l'immaginazione per giocare. E mi cacciavo spesso nei guai».

Ora è padre. Di una ragazza di vent'anni.
«The Dangerous Book for Boys l'ho pensato proprio per la sua generazione. Sono ragazzi svegli, ma se hanno un problema vanno subito a cercare la soluzione nello smartphone. Poi però, quando affrontano un colloquio di lavoro, quando devono guardare qualcuno negli occhi, quando hanno bisogno di essere davvero social, in mezzo alla gente, non c'è nessuna app che possa aiutarli. E si sentono persi. Io spero che una serie come questa possa aiutare le famiglie ad allenare i ragazzi all'avventura reale. Uscire di casa, perdersi, imparare a ritrovare la strada senza smartphone, ricordare i nomi delle vie, vedere e non solo guardare. I cellulari sono la tomba delle nuove generazioni».

Da attore, produttore e padre, che ne pensa dei casi di molestie a Hollywood?
«Ogni volta che viene fatto il nome di un uomo che ha assalito sessualmente una donna, è come se crollasse una delle colonne che sostiene un sistema perdutamente misogino. Io spero che si arrivi al collasso, perché solo così si potrà costruire una nuova Hollywood che rispetti razze, generi e culture. Serve un sistema fondato sulla meritocrazia, non sugli interessi di vecchi uomini bianchi. Di cui io, peraltro, rappresento un campione ideale».

Ora che può scegliere qualsiasi ruolo, come si orienta?
«È sempre la qualità della storia che guida le mie scelte. Sarò eternamente grato a Breaking Bad e al cambio di carriera che mi ha regalato, ma anche in quel caso io mi sono messo semplicemente al servizio di una scrittura eccellente. Le buone performance non nascono mai dalla cattiva scrittura».

Non sente mai il peso del confronto col passato, l'ansia da prestazione?
«Sempre. Ma l'ansia non ce l'ho nei confronti dei critici, non mi interessa piacere ai giornalisti. È che ho aspettative molto alte su me stesso, sono un giudice molto severo. Sia come produttore che come regista, autore e attore. Anche adesso, a teatro. Avrò fatto ottanta repliche di Network, e ancora oggi ripenso a come migliorare la mia performance. È una specie di condanna: non smetto nemmeno quando vorrei farlo».

 
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