«Vivo chiusa in casa. Otto ore al giorno seduta davanti a un tavolino. In silenzio. I figli, non mi ricordo neanche più come ho avuto il tempo di crescerli. Una vita monastica, come tanti miei colleghi. Forse è per questo che noi compositori arriviamo anche un secolo dopo sugli argomenti che muovono il mondo». Lucia Ronchetti è un’autrice di musica dei nostri tempi, di spartiti per il teatro musicale, una Frau Wagner, una signora Verdi del XXI secolo, conosciuta e applaudita più all’estero che in Italia. Sta creando un suo Inferno di Dante per l’Opera di Francoforte e a Berlino la sua Rivale è stata commissionata e appena eseguita dalla Staatsoper di Berlino per l’inaugurazione della sede storica restaurata, mentre Les aventures de Pinocchio sono andate in scena all’Opera di Rouen e alla Nouvelle Philarmonie de Paris.
«Non esistono nel nostro Paese le condizioni per poter lavorare», spiega, «e lo dico da arrabbiata. È rarissimo avere commissioni ed è rarissimo che le opere vengano eseguite. E non parlo per me, succede persino a Sciarrino, il musicista che ha aperto le autostrade percorse da tutti noi. Sono molto felice, infatti, di essere oggi qui a Santa Cecilia, a Roma, in Italia con un mio lavoro».
La composizione di Lucia Ronchetti che è stata proposta al Parco della Musica, è “Inedia prodigiosa” (commissione del Massimo di Palermo, co-produzione RomaEuropa festival Santa Cecilia), per Coro, Cantoria e Chorus, diretti dal Maestro Visco. Un’opera corale con centocinquanta cantanti, tra coro misto, di voci bianche femminili e femminile amatoriale che affronta il tema del digiuno, attraverso alcune figure rappresentative di un fenomeno che a partire dalle sue radici rituali diviene patologia: Santa Caterina da Siena, Mollie Fancher, Anna Garbero, Maria Maddalena de’ Pazzi, Christina Georgina Rossetti e Jeanne Fery.
Che cos’è un’opera corale?
«Questa dicitura formalmente non esiste. Ma è la mia quarta produzione che chiamo così. Sono caratterizzate da un forte aspetto teatrale e destinate a un vasto ensemble di voci. Non c’è accompagnamento strumentale. La teatralità è data proprio dalle voci. I 150 cantanti sono sistemati in punti diversi della sala e ogni massa corale ha un suo ruolo drammaturgico».
Può guidare il pubblico a capire?
«Il gruppo amatoriale rappresenta le dimenticate, anonime, come le attuali anoressiche, perdute.
E gli uomini che fanno?
«Un coro marziale, una truppa. Sono i giudici, osservatori stupiti, che non hanno una risposta chiara».
Perché un’opera sull’anoressia. È un problema che l’ha sfiorata?
«Mi interessava la percezione che si è avuta nei secoli di questo fenomeno. Che solo ultimamente viene considerata una malattia, una sindrome nervosa. Prima era un miracolo. La mia non è assolutamente un’apologia dell’anoressia. Ma una ricerca su tutta la letteratura nata intorno a questa pratica».
Da dove è partita?
«Ho cominciato leggendo Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche di Walter Vandereycken e poi testi, documenti fino al libretto, la musica. Tra le donne che ho incontrato in questa ricerca, mi ha incuriosito molto Christina Georgina Rossetti. Poetessa, tra le prima a pensare che assottigliandosi sarebbe diventata più affascinante. Ribaltò tutti i parametri di bellezza e sosteneva che il digiuno le restituiva la purezza necessaria per scrivere».
Descriva il suo lavoro: come arriva alla creazione?
«Chiusa in una stanza. Ho un immaginario sonoro, la creazione avviene nella mia mente. L’emozione arriva nel trasferimento di una foresta di segni in un codice. Non sempre riesco a riportare nella pagina tutte le sensazioni acustiche che provo. La gente si sorprende che stia così a lungo chiusa in silenzio. Ma io mi sento come su una giostra. Mio marito mi sopporta, è uno psicanalista, ha buone armi. E comunque non do un gran fastidio».