L'umanità "in caduta": ecco cosa succede quando perdiamo l'equilibrio

L'umanità "in caduta": ecco cosa succede quando perdiamo l'equilibrio
di Carmine Castoro
5 Minuti di Lettura
Lunedì 10 Novembre 2014, 06:11 - Ultimo aggiornamento: 17:25

C’è la spettatrice di un film al cinema che caracolla a terra in un nugolo di popcorn, ciambelle smangiucchiate, bottigliette di plastica e occhialini tridimensionali, mentre cerca di trovare un appiglio sulla camicetta di una ragazza che le siede davanti, che resta impassibile nella sua ipnosi virtuale.

C’è la massaia che precipita a faccia in giù, trascinandosi bidoncini di detersivo, pedalini stesi, merletti e mollette, e “sfoggiando” un intimo anche abbastanza sexy che non sembra servirle più di tanto.

C’è l’ecologista disattenta (come modella, la bravissima attrice di teatro e cabarettista Betta Cianchini) che va lunga sulla scaletta del giardino di un villino, sommersa di sacchetti green per la differenziata, sturalavandini, schegge di vetro e guanti da Solepiatti.

E c’è un’altra casalinga disperata che si spiaccica sul selciato oltre il davanzale, con la testa che fa tutt’uno con la pastina appena cotta, i capelli arruffati, mestoli inerti e gerani in vasetti infranti, con la Clerici che sorride serenissima nel piccolo schermo, anch’esso fiondato da qualche metro di altezza ma incolume, freezato sulla “Prova del Cuoco”.

C’è di che divertirsi e di che riflettere con questo caleidoscopico progetto artistico e filosofico di Remmidemmi, al secolo Sandro Giordano, fotografo (e attore) di Roma, che sta letteralmente sbaragliando nei mercati dell’arte in Italia, ma soprattutto in centro Europa, Francia, Spagna, Germania, Olanda e in Sudamerica. “In extremis”, è il titolo di una collezione di decine, ormai, di scatti pop particolarissimi, in cui Giordano sceglie come protagonisti personaggi della strada, gente comune, nell’esercizio dei mestieri o di mansioni domestiche, nei luoghi della socialità come nelle aree condominiali.

Ma, qualsiasi sia la collocazione topografica, i corpi sono resi irriconoscibili da una “caduta” a pancia sotto appena avvenuta: su una rampa, in un prato, in una sala chirurgica o di attesa, in un palazzo di periferia, in un viottolo di montagna, fuori da un’automobile, dentro un cilindro di pneumatici.

La caduta, dunque, come tema fondamentale, e l’essere sommersi da oggetti fino a pochi secondi prima efficientissimi, accessori, gadget, utensili, che sono muti testimoni di un tracollo feticistico di cose inutili, come nella scena di quel crimine silenzioso chiamato “consumismo”, o che forse sono essi stessi causa dello scivolone fatale.

Poiché oggi l’equilibrio psicofisico su cui ci basiamo è a tempo determinato, friabile e instabile, nell’habitat sotto forma di guerre, inquinamento, dittature, e dentro di noi, nel nostro intimo, dove allignano tossicità, refrattarietà, caos e mutazioni non meno terribili e carnalmente ripugnanti.

“Viviamo in un mondo di volti stravolti dalla chirurgia plastica, che propone immagini “fisse”, “stereotipate”, “immagini/oggetto”, in cui la personalità si prostituisce ad un modello di marketing prestabilito – dice Giordano (cliccabile su www.instagram.com/__remmidemmi e raggiungibile nella Capitale dal 21 novembre al 7 dicembre, alla BGallery di Roma, Piazza di Santa Cecilia 16, Ingresso gratuito, tutti i giorni tranne il lunedì) -. Io credo che la perfezione stia nell’imperfezione, si esprima nei contrasti forti, nella fragilità, nell’umanità che rende tutti gli individui uno diverso dall’altro. Nascondo il volto dei miei personaggi perché è il corpo che parla di loro, e le cadute sono il punto di non ritorno”.

Tema carissimo anche a un raffinato filosofo come Igino Domanin e al suo ultimo libro “Grand Hotel Abisso” (Bompiani), raccolta di mini-reportage dell’anima da vero pensatore-viandante, dove l’autore dice: “Rendere programmaticamente la vita invivibile, paralizzare le forze ed esautorare il corpo fino a renderlo un mero centro di reazioni morbose e sintomatiche, cullare l’esistenza fino a minacciare la stazione eretta dell’umano mi pare la sfida sotterranea e sorda che noi stessi stiamo coltivando con disgustoso compiacimento”.

E’ il destino della nostra reificazione, allora, ciò che ci annienta sottilmente coi divertissement effimeri della televisione, il benessere che incatrama le nostre abitazioni di materia disgiunta, forse irreparabilmente, dallo spirito e dalle idee, di comportamenti eterodiretti sui quali possiamo solo, prima o poi, sbattere, infrangerci, segmentarci ancora di più, collassare per sforzo passivo.

Abbiamo sempre più notizie e video da consultare, sempre più prevenzione, sempre più diritti da difendere, sempre più incontri in chat, sempre più foto da condividere, sempre più giochini elettronici, sempre più poker on line per tentare la grande svolta, sempre più blog per offenderci e dire la nostra anche quando, nella stragrande maggioranza dei casi, faremmo bene a tacere e studiare tanto prima, sempre più oggetti da comprare, barattare, affittare, impilare, sempre più mappe da consultare per il nostro prossimo viaggio da apolidi miserabili: un luna-park che sa di bunker, con un proprio movimento e con leggi e diktat che sfuggono al nostro controllo. “Abbiamo perso il mondo”, sottolinea Domanin, e la libertà, infatti, se non quella d’acquisto e di zapping, non sappiamo più metafisicamente cosa sia.

“Ho sempre amato fin da bambino i film di Charlot e di Stanlio e Ollio perché mi facevano ridere – conclude Remmidemmi -. Spesso nei loro film si vedono personaggi ai quali capitano le cose più tremende, gli incidenti più gravi, le cadute, appunto. La prima reazione sono stupore e disagio per l’improvvisa disgrazia capitata al personaggio di turno, ma dopo qualche istante quello stesso disagio si trasforma in una irresistibile risata liberatrice.

Questo è l’effetto che voglio ricreare attraverso le foto: raccontare la tragedia ma con ironia. Un umanità rotta e scomposta che io guardo con affetto e partecipazione in cui io per primo non mi sento escluso. Ed è proprio questo sentimento empatico che mi porta a non giudicare ma a condividere le storie che racconto nella speranza che la risata strappata dallo spettatore sia un auspicio a credere in futuro migliore e più autentico”. E che la risata sia con noi. Con qualche smorfia, magari, che sa di cervello finalmente riattivato.