Faletti, le mille trasformazioni di una maschera triste

Giorgio Faletti
di Riccardo De Palo
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Sabato 5 Luglio 2014, 11:51 - Ultimo aggiornamento: 6 Luglio, 12:51
Una maschera triste capace di trasformarsi in modo inaspettato. Questo stato Giorgio Faletti. Dalla leggerezza della comicit di Drive in, alla canzone seria premiata dalla critica, alla carriera di romanziere di successo.

Per molti, l’immagine di Faletti è ancora legata a trasmissioni come Drive In - simbolo di una certa rivoluzione del costume televisivo degli anni Ottanta - e alla maschera triste di personaggi come Vito Catozzo, guardia giurata pugliese un poco sovrappeso, o del Testimone di Bagnacavallo, di Suor Daliso, Carlino, Poldo. Il fatto è che, in quell’esordio della tv berlusconiana e in quella squadra di donne procaci e di battute ripetute e ridondanti, Faletti era un po’ il contraltare, il lato tragico di un avanspettacolo che evocava di default copertine di rivista pruriginose degli anni Sessanta. Che la sua comicità avesse un lato amaro, lo si capì meglio in seguito, quando interpretò il carabiniere di Signor Tenente, che gli valse il secondo posto a Sanremo, nonché il riconoscimento dei critici. Una canzone in realtà serissima, tutta dedicata agli agguati di Capaci e di Via D’Amelio. Uno sfogo di un uomo delle forze dell’ordine, nella lingua delle persone comuni, e che sottolineava «una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù», e cioè che «chi ammazza prende di più di quel che prende la brava gente».



Una vera svolta, le canzoni di Faletti, che facevano rapidamente svanire il ricordo (ma non l’impronta) delle battute di Vito Catozzo, del genere «porco il mondo cano che c’ho sotto i piedi» o l’ormai proverbiale calembour«qui lo dico e qui lo annego» messo in bocca al testimone di Bagnocavallo.

Nella squadra di Antonio Ricci, che inventò un genere e fece scuola, Faletti era una presenza stabile, che si dipanava in macchiette umoristiche e sfoderava battute pronte per l’uso. C’era Carletto di Passerano Marmorito, sempre a caccia di femmine, che spiegava: «A me mi piacciono le donne nude perché c'hanno l'esterno in pelle!» e chiosava: «Se non ci dici niente a tuo fratello, ti regalo un bel giumbotto!»



Eppure (ancora Catozzo) il continuo refrain del macho-a-tutti-i-costi e gli sketch in cui il vigilante diceva «se io saprei che mio figlio mi diventerebbe ricchione, vivo ci faccio mangiare la borsetta!», sarebbe costato caro al futuro Faletti scrittore, sua ultima e più compiuta trasformazione. Come fare a prendere sul serio, in campo letterario, un uomo capace di simili scempiaggini? Ebbene, il mercato ha dimostrato non solo che Faletti andava preso sul serio, ma anche che aveva capito esattamente quale fosse il gusto del pubblico, a differenza di tanti altri.



Un libro come Io uccido, però, non si improvvisa. Ed ecco la più straordinaria delle trasformazioni di Faletti. Il Vito che dice alla moglie Derelitta «se volevo un'indossatrice la sposavo» diventa un abile facitore di noir, che fa dire al suo protagonista di non poter dormire, perché il suo male «non riposa mai», e di avere trovato un unico antidoto alla sua sofferenza: uccidere. Un criminale seriale che si aggira nel Principato di Montecarlo sostituisce, d’un colpo, il caratterista vestito da suora e quello che impugna la pistola d’ordinanza. Non solo: i personaggi vengono descritti con grande profondità psicologica, a partire dal killer Jean-Loup, sofferente dall’infanzia dell’educazione rigida e militare imposta a lui e al fratello deforme dal padre, ex agente segreto con problemi mentali. Onore a un uomo dalle infinite risorse, che seppe fare della metamorfosi una virtù.
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