Sostenuta da un allestimento chiaro, la rassegna si apre democraticamente ad ogni possibile interpretazione non privilegiando un tema o un orientamento. Allo spettatore non resta che assecondare le propri inclinazioni e sviluppare un proprio percorso di visita. In questo caleidoscopio di proposte emergono le presenze di Jimmie Durham (Leone d’oro alla carriera), di Christoph Büchel, con il tragico ready made La barca nostra (2019), di Danh Vo, con l’autobiografica installazione (Suum cuique, 2019), e di Cyprien Gaillard con la scultura olografica L’Ange du Foyer (Vierte fassung, 2019) sensibilissima e di grande bellezza. A proposito dei padiglioni nazionali, sono 90 i paesi partecipanti, quattro esordienti (Ghana, Madagascar, Malesia, Pakistan) ed uno per la prima volta con una propria struttura (Repubblica Dominicana). Spiccano, tra questi, il tedesco con Natacha Süder Happelmann, il francese con Laure Prouvost, l’inglese con Cathy Wilkes e lo svizzero con Pauline Boudry/Renate Lorenz che si confrontano, ciascuno a proprio modo, col tema dell’identità. Riflettono sulla storia il padiglione polacco con Roman Stańczak, il rumeno con Belu-Simion Făinaru, Dan Mihălţianu e Miklós Onucsán, e l’Albanese con Driant Zeneli, che traduce cronaca in suggestione lirica. Nel padiglione Italia, affiancata da Enrico David e Chiara Fumai, spicca visibilmente la partecipazione di Liliana Moro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA