Francesco Bruni racconta il suo arrivo a Roma: «Quella neve dell'86 e i miei cappotti russi»

Francesco Bruni racconta il suo arrivo a Roma: «Quella neve dell'86 e i miei cappotti russi»
di Francesco Bruni
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Lunedì 22 Maggio 2017, 12:31 - Ultimo aggiornamento: 24 Maggio, 16:14
IL RACCONTO
Con le scarpe fradice, i cappottoni neri da esistenzialisti russi e un freddo boia, io e Luigi Guarnieri camminavamo a fatica nella neve nello scenario sovietico dell'Eur cercando di raggiungere la sede della Siae per depositare un nostro copione che doveva miracolosamente partecipare al Solinas. Erano i giorni successivi all'epifania del 1986 e in un certo senso l'incontro con quella città così bianca e quasi tarkovskiana, rappresentava un prodigio divino e un'epifania anche per me. Rivedevo Roma dopo tanto tempo. Ci ero nato e ne ero stato espulso a neanche un anno di età perché mio padre, dirigente alla Arthur Andersen, una multinazionale impegnata nelle revisioni dei bilanci delle grandi aziende, ci aveva portati prima ad Atene, poi a Milano e infine a Livorno.

IL MITO DELLA FRONTIERA
Di Roma, sfiorata per un istante e poi sognata sui nostri provinciali palchetti teatrali di retroguardia, covavamo il mito. Ci sembrava una prateria da conquistare. Paolo, ovvero il Virzì, ci si era trasferito strappando con l'Università per inseguire i propri sogni al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ogni tanto lo andavo a trovare nel suo monolocale-ritrovo in Via della Lungara. Conviveva con i condomini Fabrizio Bentivoglio e Francesca Marciano in un'atmosfera bohémienne che tra una festa e un volto meraviglioso di ragazza mi sembrava confinare con il Paradiso. Ero invidioso e quando tornavo a Pisa - all'epoca frequentavo la Facoltà di Lettere Classiche - vedevo i miei coetanei appassire sui libri e mi identificavo senza provarne sollievo. Così affrettai i tempi per laurearmi sui regni neo-hittiti di Anatolia e mi lanciai all'inseguimento del Virzì. Era il 1988, sostenni l'esame al Csc con Furio Scarpelli, lo superai e venni ammesso: una delle emozioni più grandi della mia vita.
A Livorno, quando ci capitava di tornare sporadicamente, ci prendevano in giro trattandoci con scherno per le nostre velleità artistiche e per quel desiderio un po' ingenuo di voler raccontare il mondo con il cinema: Ma cosa ci fate a Roma? I filmini?. Io ero un ragazzo cresciuto nel mito di Wenders, con quell'idea anti-narrativa dell'autore che deve portare il suo sguardo per il mondo raccontando senza meta e quando Wim era passato occasionalmente a Livorno per un seminario, lo avevo accolto gridando genio, in deliquio per il maestro della divagazione.

IL CAOS E IL SILENZIO
Ma ora, in attesa di diventare sceneggiatore - grazie soprattutto alle lezioni di Suso Cecchi D'amico e di Scarpelli, due strutturalisti assoluti, il cinema potevo finalmente toccarlo e potevo sfiorare anche Roma, di cui subivo la fortissima fascinazione, non tanto per la sua parte mitica, caotica o monumentale, quanto per il suo lato nascosto, per la sua parte celata nel silenzio estivo delle strade di Monteverde o del rione Prati, in quella luce estiva e metafisica che Nanni Moretti aveva già fatto brillare in Ecce Bombo o ne La messa è finita. Virzì aveva abbandonato l'appartamento trasteverino e ci eravamo trasferiti insieme in Viale Angelico. Eravamo la strana coppia, io Jack Lemmon e lui Walter Matthau, e la convivenza nonostante l'amicizia profonda non fu sempre piana.

Ogni tanto, avendo stili di vita almeno al tempo assolutamente distanti e distinti, si respirava un po' di tensione. C'erano liti stupidissime. Paolo amava riempire un blocchetto appoggiato di fronte al vecchio telefono grigio della Sip con disegni e caricature. Io ripulivo regolarmente quel bloc-notes per appuntare i numeri di chi chiamava e Paolo si incazzava come una belva: Sei un'isterica maledetta, lascia stare i miei disegnini!.
In cucina avevamo appeso una lavagnetta che ci era parsa spiritosa per segnare le conquiste femminili: dopo un anno, prima di dividerci, osservammo il tristissimo score: prevaleva lui per due a uno, un risultato che valutato sull'arco di 365 giorni non faceva onore a nessuno dei due. Una delle prime persone che conobbi fu Giuliano Montaldo, proprio il grande Giuliano che adesso ha recitato per me nel mio ultimo film, Tutto quello che vuoi. Montaldo aveva adattato con Scarpelli e Virzì Tempo di uccidere di Ennio Flaiano per il cinema e Paolo, che allora non parlava ancora bene l'inglese mi portò a cena a casa Montaldo per intrattenere l'attore scelto per il film, Nicholas Cage. Finimmo a cantare canzoni di Springsteen e, se ricordo bene, persino a fumare qualche canna con lui.

I CIALTRONI
Oggi che la ribalderia di quegli anni è svanita, che non ci sono più neanche i cinematografari cialtroneschi che con la voce roca e vagamente minacciosa, scortati da energumeni di 120 chili senza collo, mi suggerivano: Hai una bella famiglia, sei un bravo pischello, che è sta pretesa di essere pagato a scadenza? Intanto dacce sto copione. adesso che sono arrivati i figli e vent'anni non li abbiamo più, ripensare ad allora mi provoca allegria e tenerezza. Mi piacerebbe per esempio ritrovare Paso Doble, il primo film di Virzì girato in Betacam in cui recitavo il ruolo di un cripto-omosessuale che in un clima da Il grande freddo fa outing con i suoi amici. Aspirazioni che, ben conoscendo l'abiura già operata da Virzì su quell'opera, rimarranno tali. Roma invece è tangibile e ogni tanto di averla eletta come città d'adozione ancora mi stupisco.

LA LUCE DI AGOSTO
Con la sua luce abbacinante, con i suoi rumori, i suoi odori. Mi capita spesso di fermarmi in motorino all'angolo di una strada, davanti al Circo Massimo o in cima a Via Dandolo di alzare la testa e dire: Ma ti rendi conto Francesco? Sei a Roma!. Una città che non è amata neanche da chi la governa. Una città che ti spinge sempre sul crinale dell'illecito, che ti mette di fronte al bivio tra essere civili e ritornare allo stato primordiale, che si parli di traffico o di raccolta differenziata. Una città che devi veramente amare per poterci vivere senza impazzire.
Io di Roma, a cui non a caso ho dedicato tutti e tre i film che ho girato finora, subisco ancora in pieno il fascino. Ogni tanto sento il bisogno di allontanarmi perché è faticosa, ma a quella fatica non posso più rinunciare. Per noi romani d'adozione forse è più facile amarla. Chi ci vive da sempre ne ha dimenticato la bellezza o forse semplicemente non le ha mai dato peso. È come l'amico che ha una madre bellissima, ma ovviamente non ci fa caso, mentre tu resti turbato e magari non ci dormi la notte, a pensare quanto è bella, la mamma del tuo amico, che una volta, mentre nessun altro la vedeva, ti ha sorriso in quel modo speciale.
 
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