Festa cinema Roma, Essere gay in America: la battaglia legale di una coppia in Freeheld di Sollett

Festa cinema Roma, Essere gay in America: la battaglia legale di una coppia in Freeheld di Sollett
di Fabio Ferzetti
3 Minuti di Lettura
Lunedì 19 Ottobre 2015, 03:45 - Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 18:00
Ragazze, che coppie! Se la civiltà di un paese si misura dalla sua capacità di raccontare le donne, l'America sta un secolo avanti. Ce lo ricordavano due film diversi in tutto ma entrambi dominati da una coppia di protagoniste.

Il primo, Freeheld di Peter Sollett, è puro, solido, efficace professionismo. Cinema civile al servizio di una (giusta) causa, da una storia vera già oggetto di un docu premio Oscar. Laurel Hester (l'infallibile Julianne Moore), è, anzi era una poliziotta del New Jersey che nel 2004 si ammala di cancro e vuole garantire alla sua giovane compagna Stacie (Ellen Page) il diritto a percepire la sua pensione quando sarà morta.



LA RICETTA

Naturalmente non sarà una passeggiata, ma il film segue una ricetta sicura: un terzo di ambiente (i colleghi della polizia, non tutti esattamente pro gay, tra cui l'ombroso Michael Shannon in un raro ruolo da buono). Un terzo di intimismo (l'incontro e l'amore tra Laurel e Stacie). Un terzo di malattia e battaglia legale. Con il comico Steve Carell, completo grigio e cravatta rosa, nel ruolo dell'attivista «gay, ebreo e medio borghese», che sfrutta il caso per la sua campagna pro-nozze gay anche se Laurel, già in chemio, spiega che lei è per la parità di diritti.

Ma cosa cambia in fondo? L'essenziale è convincere i consiglieri comunali di Ocean City, tutti maschi, bianchi, sposati e titolari di varie pensioni, che «una donna che ha difeso per tutta la vita la giustizia, ora deve avere a sua volta giustizia». Il tono è quasi sempre lieve (la piccola Stacie, appassionata di moto, vince un posto da meccanico stracciando il detentore locale del record di velocità nel cambio gomme). Il taglio alla Farrah Fawcett della poliziotta, copiato dall'originale (come da titoli di coda). Le tristi tappe della malattia, codificate da centinaia di film tutti uguali.Ma il film, cauto e convenzionale, resta utile visti i tempi.



LE MATRICOLE

Ben altra inventiva invece, e personaggi nuovi di zecca, nel delizioso Mistress America di Noah Baumbach (Greenberg, Frances Ha, Giovani si diventa). Qui le ragazze in campo sono Tracy, matricola di un college a New York, e la sua futura sorellastra, la 29enne Brooke (la madre dell'una sta per risposarsi con il padre dell'altra). E se la prima, Lola Kirke, è una scoperta, la seconda, Greta Gerwig, compagna del regista e di nuovo sua cosceneggiatrice, è ormai una certezza.

È come se Woody Allen e la Diane Keaton di Io e Annie avessero avuto una figlia che oggi spande intorno a sé fascino e nevrosi, talento e inconcludenza, in una mistura così buffa che Tracey non solo si invaghisce di quella semi-sorellastra svitata ma piena di idee, che coniuga un'arte di arrangiarsi quasi italiana con sogni di business molto americani, ma ne fa segretamente la protagonista di un suo tenero e spietato racconto-verità. Da cui nessuno esce intero, perché in Mistress America sono tutti più o meno infantili, contorti, bugiardi, velleitari, pronti a rubarsi le idee, i fidanzati e pure i gatti di casa.



I DETTAGLI

Ma Baumbach sa nascondere cose enormi in piccoli dettagli, uno sguardo, mezza parola, una scena troncata a metà. E mentre ridiamo “dentro”, come capita con certe commedie americane, capiamo tutto di questi 20-30enni sommersi dai social media ma in debito perenne di realtà, che scivolano sulla vita come pattinatori sul ghiaccio. Cadendo anche rovinosamente ogni tanto.