"Ex machina": il sogno maledetto della donna robot per un debutto d'alta classe

"Ex machina": il sogno maledetto della donna robot per un debutto d'alta classe
di Fabio Ferzetti
3 Minuti di Lettura
Venerdì 31 Luglio 2015, 21:38
C’è una nuova arrivata tra le femmes fatales che popolano da secoli letteratura e cinema. Il robot femmina. La cyberseduttrice, ma dolce e inconsapevole, perché le macchine non sanno davvero quel che fanno (oppure sì?). La creatura nata in laboratorio ma così fragile e indifesa, nonché intelligente e naturalmente bellissima, da abbattere fatalmente le difese del maschio. Fosse anche il suo stesso creatore, che avendola messa al mondo dovrebbe sapere che non può provare davvero emozioni, solo simularle. Ma c’è davvero una differenza, alla fine?



Se credevate che il malinconico ma romantico Her/Lei di Spike Jonze fosse la punta di diamante del cinema sull’intelligenza artificiale, date un’occhiata all’incalzante e spietato Ex Machina, solidissimo esordio dello scrittore e sceneggiatore inglese Alex Garland (classe 1970), noto finora soprattutto per aver scritto The Beach, 28 giorni dopo e Sunshine.



Anche qui infatti la protagonista è un programma pressoché perfetto di cyber-intelligenza battezzato Ava. Che però oltre a una voce ha un corpo, anche se di “umano” ha solo il volto e le mani, mentre nuca, busto e arti sono coperti da una reticella luminescente a cavallo fra il cyberpunk e il Rinascimento. Sulle prime magari sembra muoversi impercettibimente a scatti, qualcosa nei movimenti del viso e nell’andatura è ancora lievemente meccanico (l’attrice, Alicia Vikander, è un prodigio di finezza e concentrazione). Ma è solo un attimo. Basta parlarle, ascoltarla o meglio ancora lasciarsi ascoltare, perché Ava sa anche ascoltare, e l’incanto scatta inesorabile.



Stiamo correndo troppo però. Ex Machina non è affatto un film sul potere di seduzione femminile, né un’anticipazione della cyber-guerra dei sessi prossima ventura. O forse lo è, ma in modo non dichiarato, sotterraneo. In superficie è un film girato quasi interamente tra le porte e le pareti high tech della remota e lussuosa residenza-laboratorio in cui vive con la sua creatura un certo Nathan, giovane pseudo-eremita molto cool con la passione per lo sport (e per l’alcool), nonché erede contemporaneo del dr. Frankenstein (portentoso Oscar Isaac, già protagonista per i Coen in A proposito di Davis).



Che dopo aver inventato il motore di ricerca più usato al mondo (si chiama Blue Book, in omaggio a Wittgenstein), sta usando la massa incalcolabile di dati processati quotidianamente per dare vita, cioè naturalezza, calore, spontaneità, alla bella Ava. Ma ha bisogno di una specie di collaudatore, in realtà come scoprirà l’interessato una specie di cavia, che verifichi la credibilità di Ava sottoponendola a una serie di incontri attentamente osservati attraverso telecamere a circuito chiuso...



E qui scatta il colpo di genio di questo Blade Runner in versione kammerspiel, che aggiorna e ripercorre tutti i grandi dubbi filosofici sollevati da Philip K. Dick, arricchendoli con la variabile umana, troppo umana della seduzione. Ma senza quasi mettere il naso fuori da quella villa-laboratorio circondata dalla Natura selvaggia (nella realtà i fiordi della Norvegia).



Perché il povero dipendente coinvolto nell’esperimento, un giovane programmatore biondo e perbene di nome Caleb (Domhnall Gleeson, anche lui superlativo), fisicamente l’opposto di quel barbuto genio dell’informatica, sulle prime sembra capire perfettamente cosa sta accadendo, cosa che fra l’altro arricchisce il duello di dialoghi sostenuti e tutt’altro che banali, per chi abbia un minimo di dimestichezza con la materia.



Ma intanto tutto si complica dolorosamente, sorgono dilemmi sempre nuovi (un’intelligenza artificiale può disegnare? E ballare? E cosa sono quegli strani blackout che aprono spazi inattesi di libertà?). Forse non è nato un grande regista, malgrado la mano più che sicura probabilmente non vedremmo Ex Machina una seconda volta, come capita con molti thriller. Ma di certo lo rileggeremmo volentieri in forma di sceneggatura, e questo càpita di rado.
© RIPRODUZIONE RISERVATA