A 74 anni, un Oscar e otto nomination, Al Pacino è sempre una leggenda. A Venezia appare allegro e disponibile. Parla a lungo e con piacere, spesso interrotto dagli applausi dei giornalisti. È un fiume in piena, che privilegio ascoltarlo.
Anche lei conosce la depressione?
«Se mi è capitato di essere depresso, per fortuna non me ne sono accorto. Preferisco parlare di tristezza, però: non vedo come potrei non essere triste, con quello che succede in giro».
E ha avuto mai la tentazione di lasciare la scena?
«Volevo farlo stamattina, ma dopo l’accoglienza di Venezia ci ho ripensato...(ride, ndr). Scherzi a parte, non ho mai pensato di mollare. Amo il mio lavoro, so da dove vengo e quanti sacrifici ho affrontato. L’aereo della mia carriera non è ancora pronto ad atterrare».
Cosa le è piaciuto in “The Humbling”?
«Il mix tra dramma e commedia. Si parla di un attore che non riesce più a recitare, è bloccato come capita a tanti di noi, ma ci sono anche momenti umoristici. Rispetto al libro ci siamo presi molte libertà. E dopo una preparazione lunga due anni, abbiamo girato in appena venti giorni».
Qual è il fascino del suo personaggio?
«Il fatto che invecchi consapevole di aver perso molte opportunità: è un sentimento comune a tutti. Inoltre descrive il logorio che colpisce gli attori. Quando hai rappresentato troppe volte uno spettacolo, senti di non farcela più. Senza contare i drammi della vita: droghe, successi, insuccessi. Io per fortuna ho tre figli, la fonte d’illuminazione nel magnifico viaggio che è la mia vita».
E perché ha voluto interpretare Manglehorn?
«È un personaggio universale. All’inizio si chiude agli altri perché è incapace di liberarsi del passato. Ma alla fine decide di lasciar andare i ricordi, i rimpianti, gli amori finiti e ricomincia a vivere».
Cosa pensa della Hollywood di oggi?
«Non ho molto da dire, ho sempre lavorato a New York. A Hollywood le cose sono molto cambiate. Non siamo più ai tempi di Orson Welles, quando tra attori e registi circolavano entusiasmo e buone idee. Quello spirito si è perso oggi gli studios hanno capi e obiettivi diversi. Non tutti i film sono da buttare, però: ho visto con i miei figli piccoli I guardiani della Galassia e mi sono divertito».
Come ricorda i tempi dell’Actor’s Studio?
«Con nostalgia e riconoscenza. Per decenni la scuola ha mantenuto il suo ruolo di tempio della sperimentazione e sono felice che se ne continui a parlare».
Ma cosa aveva di speciale?
«Permetteva agli attori di misurare il proprio talento, per giunta gratis! Non ho conosciuto un’esperienza più entusiasmante. Mi hanno accettato e alloggiato quando avevo 25 anni e non potevo permettermi nemmeno un affitto da cinquanta dollari al mese».
Lei interpreterebbe uno spot pubblicitario?
«Mi è capitato e non dico no a priori. La pubblicità è un modo veloce di fare soldi e può permetterti di girare i film non commerciali che hai voglia di fare».
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