Cinquant'anni d'impresa, una sfida globale

Cinquant'anni d'impresa, una sfida globale
di Oscar Giannino
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Venerdì 6 Maggio 2016, 08:57 - Ultimo aggiornamento: 9 Maggio, 08:18
I l 6 maggio 1966 l’Italia era sotto il terzo governo Moro, Andreotti era ministro dell’Industria. Quella sera, il canale nazionale Rai mandava in onda la prima puntata di Francesco d’Assisi di Liliana Cavani. Quel giorno Francesco Gaetano Caltagirone, più brevemente Franco, faceva la sua scelta di vita: l’imprenditore. A 23 anni. Anche se molti pensano il contrario, non ereditava un’impresa. Era cresciuto nel mito di un grande imprenditore, suo padre. Che però era morto quando Franco aveva solo quattro anni. Il nonno era stato un grande costruttore nella Palermo liberty dei Florio. Ma il padre di Franco nei primi Anni Venti aveva lasciato Palermo per Roma. E aveva visto giusto. Palermo languiva, Roma si moltiplicava. E aveva costruito alla grande, cominciando da mezza via Barberini. Antifascista, nel 1943 aveva impegnato i suoi capitali nella nascita della DC, affidandoli a banchieri che sarebbero poi stati esponenti di quel partito. E nel 1946, temendo il peggio per un’Italia politicamente spaccata in due, aveva lasciato Roma per l’Argentina. Suo figlio, tornato in Italia, aveva studiato al riparo della rendita dell’unico complesso di appartamenti paterni rimasti alla madre, di proprietà del titolo cardinalizio di Santa Susanna. Prima che finisse la rendita, però, doveva decidere che fare. Franco, che da sedicenne aveva iniziato a girare per i cantieri dello zio Saverio guadagnandosene la fiducia, moriva dalla voglia. E divenne costruttore anche lui.

LA FRAMMENTAZIONE
Ma non aveva un patrimonio alle spalle. Questa mancanza spiega tutto, dei 50 anni successivi del Caltagirone imprenditore che oggi si compiono. Partendo senza patrimonio, non poteva all’inizio, e ha continuato a volerlo poi, dipendere dal credito bancario. Per questo la sua sfida iniziale era costruire a costi inferiori dei cespiti finanziabili. Poiché nelle costruzioni tradizionalmente i costi sono per un terzo quelli di acquisizione dell’area, per un terzo quelli bruti di edificazione, e per il restante i costi generali e il placement del costruito, i costi finanziabili rappresentano i due terzi della somma. E la sfida divenne realizzare invece un costo non del 66%, ma mai superiore al 50-55%. E su quel margine cominciare ad autofinanziarsi, da subito. L’innovazione era dunque l’unica chiave possibile. Di qui la maniacalità per cui Caltagirone da allora è conosciuto e temuto da tutti i suoi manager, figli compresi: un controllo severo di ogni singola voce dei costi. Innovare significò adottare un metodo che negli anni Sessanta non praticava nessuno: la frammentazione in microappalti della costruzione, non ad altre imprese ma a capomastri con poche decine di operai, e l’offerta sin dall’inizio di ripagarli in quota utile con appartamenti a redditività differita nel tempo, rispetto ai contanti. Naturalmente, margine e autofinanziamento crescenti implicavano aree in cui realizzare complessi edilizi replicabili con risparmi su vasta scala, resi possibili da grandi sinergie di progettazione.

Così si posero le basi per complessi che divennero negli anni veri quartieri, sino a 25 mila residenti. E per successive evoluzioni realizzative via via ingegneristicamente e architettonicamente più ricercate, fino alle Torri del nuovo Centro Direzionale di Napoli. Senza patrimonio iniziale, obbligato all’innovazione, e in un’Italia d’impresa sempre troppo corta di capitali, al contrario Caltagirone doveva essere sempre molto liquido per non dipendere da terzi. Sono queste le tre caratteristiche di fondo su cui Caltagirone ha tenuto la barra ferma per 50 anni. Pronto a ghermire l’occasione finanziaria della crisi delle cartelle fondiarie, a cavallo tra il 1973 e il 1974, allora nel complesso ammontanti a circa 8mila miliardi di lire e che sarebbero state potentemente erose dalla svalutazione della lira: un processo la cui consapevolezza sfuggì alle Casse di risparmio che le detenevano, mentre Caltagirone lo prevenne. In quella sola occasione, il salto di liquidità dell’azienda Caltagirone fu dell’equivalente di 200 milioni di euro odierni.

l primo grande balzo del gruppo, subito messo a frutto espandendo l’attività di costruzione. Quello successivo avvenne 10 anni dopo. Dalle costruzioni alle grandi opere, con la Vianini, attiva dal 1908 nella costruzione di strade, canali, acquedotti, dighe, impianti idroelettrici, ferrovie e metropolitane. No, non fu uno sviluppo studiato a tavolino. Il 15% della famiglia Morelli, che controllava l’azienda insieme a un 40% del Vaticano, era in vendita. E Caltagirone lo prese. Gli imprenditori, dice oggi, si dividono in due gruppi: gli erbivori che masticano tutto il giorno, e i carnivori che si gettano sulla preda quando vi ci s’imbattono. Lui è un carnivoro, decisamente. Il controllo della Vianini fu rilevato per 65 miliardi di lire. In tre anni, splittandola e quotando separatamente Industria e Lavori dopo aver ristrutturato l’intera azienda, tutto ciò che aveva speso era rientrato con gli interessi.
E nel frattempo il gruppo accresceva ulteriormente il numero dei mercati in cui era attivo. Il successo della quotazione di Vianini si ripeterà dopo una nuova diversificazione coerente alle originarie costruzioni, dopo altri 8 anni rilevando la Cementir dallo Stato per 482 miliardi di lire. Anche in quel caso, riorganizzazione ed efficientamento con massiccia creazione di valore. Cementir sarà poi il banco di prova per resistere nei decenni alla crisi avanzante del mondo avanzato, spostandone le produzioni sino a oggi verso paesi a più alta crescita e assorbimento dei prodotti. A quel punto, Caltagirone realizza la sua terza quotazione, quella della capogruppo Spa in cui concentra il controllo delle diverse attività del gruppo. Di operazione finanziaria in operazione finanziaria, Caltagirone ha sempre tratto nei decenni di che moltiplicare il proprio patrimonio aziendale. Allo stesso modo nacque a metà degli anni Novanta l’ingresso nei media, con il Mattino, il Messaggero rilevato da Montedison tramite Mediobanca, e poi via via il Corriere Adriatico, il Quotidiano di Puglia, fino a dieci anni dopo il Gazzettino, controllati attraverso la Caltagirone Editore.


LIQUIDITÀ ROBUSTA
La robusta liquidità per Caltagirone ha significato negli anni doversi cimentare nella sua protezione tramite arbitraggio delle valute, nei lunghi anni di svalutazione della lira e lavorando in molti paesi a moneta debole, dove occorre precorrere e coprire i rischi di cambio. Ma infine, dopo non esser mai dipeso dalle banche, Caltagirone era maturo per divenire da imprenditore forte un forte socio bancario. Prima una scorribanda fortunata in Bna, all’inizio degli Anni Novanta. Poi l’«innamoramento» del MontePaschi, scelto perché lo statuto prevedeva il 50% negli organi dell’istituto alla Fondazione e un vicepresidente espressione del 50% privato. E divenne Caltagirone il vicepresidente, avendone rilevato un 5%. Poi la quota in Bnl, dove Mps aveva l’8%, quando Luigi Abete e Diego Della Valle pianificarono di infeudarla al Bilbao ma di fatto amministrandola loro. Il Monte presentò a Caltagirone altri interessati a salirne nel capitale: Statuto, Coppola, Ricucci. Nell’ok corral delle scalate incrociate del 2005 – Banco Popolare, Bnl, Rcs - Caltagirone vendette alla fine a Ricucci la sua quota Bnl e lo stesso fece anche con la sua quota in Rcs (rilevata a 0,6 euro e ceduta a oltre 6 euro). A Caltagirone la vicenda Bnl è costata un lungo procedimento giudiziario per insider trading e ostacolo alla vigilanza, terminato con assoluzione «perché il fatto non sussiste» in Corte d’appello a Milano, poi confermata in Cassazione. Uscito da Mps perché non convinto della gestione, dal 2012 è presente invece nelle due entità finanziarie più internazionalizzate d’Italia: Unicredit e Generali, dove è vicepresidente. Nelle banche, non è mai stato un imprenditore che prende ordini dai banchier

UN UOMO DURO
Ma le caratteristiche di Caltagirone sono sempre state le tre iniziali. Obbligato a creare liquidità. Innovatore nelle tecniche di gestione, con durissimo controllo dei costi. Finanza per la crescita reale, e per avere voce in capitolo da imprenditore forte, non ostaggio di crediti relazionali e operazioni con parti correlate. Anche per queste ragioni, la fama di Caltagirone è di essere un uomo duro. Non si è mai inchinato a Mediobanca, e in quei decenni era molto difficile evitarlo. Quando, dopo aver assunto una quota rilevante in Acea privatizzata da Rutelli, si propose per uno sviluppo industriale di Montedison, Mediobanca ebbe l’idea opposta di puntare sui Falck. I fatti dissero che Mediobanca sbagliava. In politica non ha mai sposato un partito o un leader. Ha convinzioni toste. Credo oggi non gli dispiaccia la verve di Renzi, quando punta i gomiti ai fianchi dei tedeschi per far capire loro che le regole vanno condivise, non imposte. Ma è un’opinione mia, potrei sbagliare. A me, ha sempre incuriosito molto. Non sono numerosi, i grandi imprenditori italiani capaci di chiederti ragione di questo o quel numero e di questa o quella opinione, ascoltandoti con attenzione vera. Di errori ne ha compiuti anche lui, come tutti. Per esempio, credo avesse annusato che Mps e Mussari erano abbastanza telecomandati dall’alto, e che abbia esitato troppo ad andarsene da Siena, anche se lo fece prima di rimetterci. Il cliché mediatico a lungo imperante è stato quello del «Caltagirone palazzinaro». Ma i fatti si sono incaricati di mostrare tutt’altra cosa, nei decenni. Caltagirone era ed è un imprenditore completo. Già da quel 6 maggio 1966 aveva le idee chiare, su come continuare a crescere anche dopo la fine delle sterminate periferie da edificare. Buon cinquantennio, ingegnere.
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