La lotta ha il suo premi,o non nella vittoria ma nella lotta stessa

di Roberto Gervaso
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Mercoledì 6 Giugno 2018, 08:23 - Ultimo aggiornamento: 7 Giugno, 20:08
Leggo Adriano Tilgher su Miguel de Unamuno, il più affascinante e problematico intellettuale e pensatore spagnolo del Novecento, che da decenni mi tiene compagnia e che vorrei la tenesse anche a voi:

- La fede è volontà di credere in ciò che si spera.
- La vita ha la sua fonte e le sue forze nella ragione.
- Non è la meta che m'interessa, ma il cammino verso di essa.
- Voglio essere Dio e io.
- Voglio la lotta per la lotta. Voglio combattere sempre e non vincere mai, conquistare sempre e non perdere mai.
- Voglio la lotta per la lotta e non per la vittoria.
- La vita dev'essere una perenne attività sintetica.
- La tantalica sete di conoscenza dell'uomo non sarà mai spenta.

Voi, voi lettori e lettrici, mi chiederete perché in questa rubrica di un grande quotidiano nazional-popolare, una rubrica, stando al Niagara di mail che ricevo, si occupi, da parte di un profano, di temi così alti e profondi.
Io sono un profano, ma un profano che pensa, e pensa non solo al contratto di Di Maio e Salvini, alle miserie della nostra miserabile politica, ma anche alla coscienza, allo spirito, alla mente di chi mi legge. Bisogna pensare sempre al nostro destino, e non solo perché è il nostro destino, ma anche perché dobbiamo sempre essere pronti ad affrontarlo.

La riflessione sunoi stessi non è una perdita di tempo: è una provvida necessità. Guardarsi dentro e capirsi. E capirsi è anche capire gli altri. In fondo, nel bene e nel male, nella sorte propizia o avversa, il Fato ci accomuna. Lo so, lo so bene che certe domande sono destinate a restare inevase, che a certi quesiti non potremo mai dare una risposta. Se è vero, come dice Voltaire, che dobbiamo coltivare il nostro orticello, è anche vero che quel che succede oltre il suo recinto, non deve lasciare indifferenti.

È vero che non so nulla di me, non so da dove venga, e perché, non so dove vada, e perché. Ma so che devo lottare. E non solo per la sopravvivenza, ma anche per capire le ragioni della mia esistenza.

Non so se Dio, o chi per lui, un onnipotente e onnisciente architetto, un sublime geometra, mi abbia concepito, e perché. Ma sono stato concepito e un'investitura sovrannaturale ha impresso un marchio indelebile alla mia nascita.
Comunque sia, la mia battaglia è su questa terra e, se non la vincerò, poco importa. Devo scendere in campo, sventolare il mio drappo, incrociare le armi di cui sono stato fornito e affrontare la lotta non con baldanza, ma con coraggio, non con superbia, ma con umiltà. Un vigore intrepido, una volontà caparbia. Il nemico, sempre in agguato, può accerchiarci da ogni parte, e noi dobbiamo guardarci intorno per evitare i suoi strali e, comunque, se questi feriscono, non scoraggiarci, riprendere le armi e ricominciare la tenzone.

Le sfide non devono farci tremare, ma ridare slancio ai nostri aneliti di rivalsa. Se, a un certo punto, dobbiamo arrenderci. Arrendiamoci. Ma non sia una resa a discrezione. Usciamo dal campo di Marte della vita a testa alta. Se dobbiamo perire scriveva Sénancour periamo. Ma periamo resistendo. E non facciamo che la nostra malasorte sia giustizia. Usciamo dalla vita destituiti, non dimissionari.
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