Mannarino, un blues per la città meticcia

di Mario Ajello
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Domenica 15 Gennaio 2017, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 20:15
“Ecco come far  ballare la tristezza”
@GiovanniFerrar

È un’ottima sintesi del nuovo disco di Mannarino. Il quale canta tra l’altro in “Roma”, la canzone iniziale: «Voglio brinda’ co’ la cicuta / a ‘sta città che resta muta». E c’è Roma dappertutto, anche quando non sembra, in questa raccolta intitolata “Apriti cielo” e suonata in mille maniere, in tanti colori, spaziando, giocando, con il senso del profondo sbandamento di una città e di una cultura in crisi ma senza mai una lagna. Semmai, con un sorriso - anzi, tanti - in forma di sound. E con una creatività di immagini lieve e toccante, come nell’ultima canzone del disco, “Un’estate”, dove si finisce in «un albergo a ore / senza neanche dirci che era amore». Si balla di rumba, ci si muove e assai con samba e tropicalismo, ci si culla con il blues che sembra quello africano di Ali Farka Touré, ci si diverte con “Gandhi” in cui rivivono a sorpresa le atmosfere scanzonate di Jannacci e di Gaber. Per non dire di “Babalù”, pura giocosità infantile, festa di voci e di cori. Roma, nell’estro del romanissimo Mannarino, si svela per quella che è: una città mondo, un concentrato di tutte le periferie globali, una capitale meticcia e sempre più melting pot. Mannarino finora ha rappresentato il folk romano rivisitato e adesso è diventato un’altra cosa. È world music, senza far scadere questo genere - come spesso accade - nel mainstream modereccio e nell’autocompiacimento terzomondista. Alla Capitale servirebbe proprio, anche politicamente, un’iniezione di energia come questa. Un’overdose di positività stile “Apriti cielo”. Tropicalismo, salvaci tu.

 mario.ajello@ilmessaggero.it
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