L'architettura fascista che in realtà non era fascista

di Pietro Piovani
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Mercoledì 16 Aprile 2014, 23:13 - Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 13:18
L'inquietante fascino dell'architettura fascista romana.

@lucianodesimone







Sappiamo tutti quanto l'architettura e l'arte di Roma antica abbiano influenzato il mondo intero. Poi sappiamo del rinascimento e del barocco, poi al massimo c'è il Settecento di Valadier e Canova e poi più niente. Ma Roma è stata capitale dell'architettura anche in un'epoca più recente, forse a sua e certamente a nostra insaputa. È cominciato tutto con un ponte. Uno di quei ponti sul Tevere che attraversiamo in auto cento volte all'anno senza neanche guardarli: Ponte Vittorio. Può sembrarci un esempio qualsiasi di quell’edilizia umbertina alla quale chissà perché non abbiamo mai attribuito grande valore. Invece (come segnalò tempo fa Philippe Daverio nel suo bel programma televisivo “Passepartout”) i gruppi scultorei di Ponte Vittorio sono la prima traccia conosciuta di quello stile fatto di corpi virili, legionari romani bardati con elmo e scudo, fasci littori, fasci di muscoli, mascelle volitive, glutei tonici, carne e toghe che emergono dal marmo con un vigore e un dinamismo che solo la grande scultura sa donare alla materia inerte. Per abitudine lo chiamiamo “stile littorio” e lo identifichiamo con l'epoca fascista, ma sbagliamo perché Ponte Vittorio è stato edificato molto prima del fascismo, tra la fine dell'Ottocento e il 1912, anno di inaugurazione delle statue. E così, a cavallo tra due secoli, nella Roma nuova capitale dello Stato risorgimentale, nacque una corrente artistica di stampo neoclassico che successivamente si è irradiata in tutto il pianeta: a Parigi come a Washington, negli edifici pubblici degli anni Trenta ritroviamo gli stessi legionari, gli stessi fasci littori, le stesse aquile imperiali. Vale dunque la pena di ricordare i nomi di chi creò quelle sculture, artisti allora all’avanguardia, oggi dimenticati: , Giuseppe Romagnoli per "La fedeltà dello Statuto", Italo Griselli per "Il valore militare", Giovanni Nicolini per "Il trionfo politico", Cesare Reduzzi per "Il padre della patria", Elmo Palazzi, Luigi Casadio, Amleto Cataldi e Francesco Pifferetti per le quattro Vittorie in bronzo.



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