Via Veneto e gli affreschi-scandalo in hotel

Via Veneto e gli affreschi-scandalo in hotel
di Fabio Isman
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Venerdì 21 Ottobre 2016, 22:09 - Ultimo aggiornamento: 22:36
Nella sala da pranzo dell'ex Ambasciatori censurati i dipinti di Guido Cadorin sulla "Dolce Vita" dei vip degli anni '20

LA STORIA
Pochi conoscono un’autentica «chicca» che la città vanta. È in via Veneto, nella sala da pranzo di quello che era l’Hotel Ambasciatori, e ora si chiama Palace: un ciclo di affreschi, ispirato al Settecento veneziano, di autentici protagonisti, in abiti rigorosamente da sera, della vita romana del 1926, quando è dipinto. Allora, fecero scandalo: proprio perché parecchi «vip» potevano facilmente essere riconosciuti; ma oggi costituisce invece un bellissimo, ed assai raro, documento dei tempi. L’albergo era «il più lussuoso della Città eterna», spiega Jean Clair; voluto dall’industriale di Milano Gino Clerici, padre del famoso pittore Fabrizio. Melchiorre Bega, architetto e designer bolognese, chiama a decorarlo Guido Cadorin (1892 - 1976): gli chiede scene realistiche, ispirate a persone esistenti.

Evidentemente, era d’accordo anche Marcello Piacentini, tra breve teorico e interprete della «grandeur» del regime, cui si doveva l’edificio. Ne aveva costruiti a viale Liegi e al Viminale, con il cinema Corso, e affronta la prova di un hotel d’assoluta «grandeur» e non semplice: la facciata su una curva, e l’ingresso ad un incrocio.

PRECOCE
Cadorin era un genio precoce. A 17 anni, espone già a Ca’ Pesaro, sul Canal Grande; a 27, era diventato amico di Gabriele D’Annunzio: decoratore ufficiale del Vittoriale di Gardone, per cui disegna mobili, lampade, i tessuti. La sua scuola era stata il laboratorio del padre, ebanista (aveva dieci fratelli), e quella elegantissima di Mariano Fortuny. Prima commissione, un biglietto d’invito, a appena 13 anni; era già amico di Modigliani e Marussig. Esordisce come decoratore; si scopre pittore nel 1910, con un Ritratto della madre, che è a Venezia.
E poi, la lunga carriera: il suo cavallo di battaglia resteranno sempre i ritratti. Decora intere ville: la Papadopoli a Vittorio Veneto, o quelle dei Melzi e Brandolini a Padova. Lasciamo perdere il resto, compresa la personale alla Biennale di Venezia nel 1942, o l’Autoritratto acquistato dagli Uffizi nel medesimo anno.

VOLTI NOTI
A Roma, ci sono un po’ tutti: a grandezza naturale e presi dal basso, fumano, conversano, baciano mani tra balconi e colonne tortili alla Bernini. Palese l’eco dei dipinti di Tiepolo alla Villa di Maser; di quelli a Palazzo Grassi; degli ambasciatori eternati al Quirinale. Pure di Raffaello che in Vaticano, dice Clair, «mescola ritratti reali (tra cui il suo) con figure immaginarie». Allora, ecco, in dieci dipinti, 78 interpreti. Piacentini con la nipote Valeria; Bega; Margherita Sarfatti (già intima del duce) e la figlia Fiammetta; fa capolino da una colonna un giovane Gio Ponti (come Sarfatti, l’aveva esplicitamente chiesto), che fonda nel 1928 la rivista Domus, e l’intera famiglia Volpi: a partire da Giuseppe, ideatore di Porto Marghera e creatore del Festival del cinema di Venezia, allora anche ministro dell’Economia di Mussolini (ma nel 1928, va in disgrazia).

ANCHE IGNOTI
Ci sono la padrona di casa, Umberta Resinelli, e alla sua destra la signora Strainchamps; lo stesso Cadorin, vestito anch’egli in nero, nell’atto di firmare l’opera; Roberto Papini, che dirigeva la Galleria d’Arte moderna, con lo scrittore Francesco Sapori e la suocera del proprietario, Antonietta Bournens Seves; di spalle, la figlia dell’allora direttore de “Il Messaggero”, Virginio Gayda; Gino Clerici; la signora Venturi; il violoncellista Gilberto Crepax, che suonò in trio con il padre di Claudio Abbado, Michelangelo; l’avvocato Rodolfo Protti; il pittore Felice Carena; le contesse Cervi e Pongelli; diplomatici.

Anni fa, Aldo della Casa, che possedeva l’albergo, diceva: «Dovrebbero esserci pure il banchiere Treves e il duca d’Aosta; perfino mio zio Adelmo, però non lo individuo». Le pitture, a quattro mesi dall’inaugurazione, furono ricoperte da un velo. Cadorin fece causa, invano. L’hotel diceva che gli ospiti se ne andavano; ma forse, nel 1927, per il duce, la Sarfatti era semplicemente già tramontata. Le pitture sono «l’ultimo esempio europeo d’un grande ciclo di affreschi moderni», conclude Jean Clair, e chissà se è vero.
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