Paralisi Campidoglio, niente progetti: al palo opere per 420 milioni

Paralisi Campidoglio, niente progetti: al palo opere per 420 milioni
di Francesco Pacifico
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Mercoledì 19 Febbraio 2020, 09:06

Oltre 420 milioni di cantieri che non partiranno perché al Comune - e nelle sue varie articolazioni - non c'è quasi nessuno capace di redigere un progetto come si deve. La giunta capitolina lo scorso dicembre ha deciso di stralciare - di fatto a rinunciare anche se le voci restano congelate nel documento unico di programmazione in attesa dello stanziamento definitivo a una serie di pezzi del suo piano triennale dei lavori pubblici 2020-2022. Questo perché la Ragioneria si è accorta che in molti casi non erano «stati dichiarati i livelli minimi di progettualità». In sostanza mancava, come invece prevede il codice degli appalti, il cosiddetto progetto definitivo.

Tutto questo avviene in una realtà come Roma Capitale che, nonostante un bilancio di oltre 6 miliardi di euro, ne riesce a impegnare a malapena 700-800 milioni per gli investimenti. Per gli stralci parliamo di opere pari a 120 milioni di euro nel 2020. Di quasi 188 milioni per il 2011. E di circa 119 milioni per il 2022. In totale 427 milioni di euro di investimenti, per i quali c'erano i fondi e che rischiano di non vedere mai la luce. Il codice degli appalti sopra una certa soglia prevede che si autorizzino gli stanziamenti delle opere soltanto in presenza della cosiddetta progettazione minima, cioè quella definitiva a cui segue quella esecutiva.

LA SITUAZIONE
L'assessore capitolino al Bilancio, Gianni Lemmetti, ha provato a fare pressioni su tutti gli uffici di Roma Capitale e delle sue tante estensioni proprio per evitare questi ritardi. Il gap di progettualità è innanzitutto legato a un deficit di personale. Il Campidoglio ha in organico oltre 23mila dipendenti, ma tra questi sono pochi quelli capaci di scrivere capitoli di gara e progetti esecutivi. Racconta un ex assessore: «Quel che è peggio è che non si dimostrano adeguate o non vengono coinvolte a sufficienza le strutture di progettazione esterne, come le municipalizzate nate in questa direzione». Non a caso nella prossima infornata di oltre 2.700 travet che il Comune si appresta a fare nel triennio, ci sono una quarantina di dirigenti e soprattutto ingegneri, architetti o geologi.

Alle mancanze di uomini e competenze però si aggiungono aspetti più prosaici: dirigenti e funzionari che, dopo gli anni e le inchieste di Mafia Capitale, si mostrano molto cauti nel firmare le carte, bandi di gara scritti male e soprattutto un'errata programmazione degli interventi tra quello che le articolazioni (come la sovrintendenza) chiedono e quello che si può realizzare.
Guardando ai singoli comparti, tra le opere stralciate, ci sono poco più di 200 milioni spalmati sul triennio per la mobilità (la manutenzione delle metro A e B e l'ambizioso Grande raccordo anulare per le biciclette su tutte), un altro centinaio per il rifacimento stradale e il recupero delle periferie, una ventina per restaurare pezzi del patrimonio artistico romano, 5 milioni per i parcheggi di scambio in alcune stazioni, quasi un milione per il sociale. Senza contare - pur se fuori dal piano triennale dei lavori pubblici 2020-2022 - una cinquantina di milioni di euro di microinterventi per la messa a norma delle scuole romane, che però potrebbero essere recuperati già con le variazioni di bilancio di quest'anno. E nella lista dei progetti rimasti nel libro dei sogni (di fatto neanche rimasti sulla carta perché mancano gli atti per sbloccarli) ci sono le opere di accesso al Ponte dei congressi, il ripristino del palazzetto dello sport di viale Tiziano fino al consolidamento del Teatro di Marcello o il restauro delle statue di Ponte Sant'Angelo. Lemmetti, in un Comune che nel 2019 avrebbe accumulato un overshooting di investimenti non spesi per 700 milioni, ha rivendicato la scelta di aver «applicato il principio contabile per cui vengono inserite in bilancio solo le opere che presentano livelli adeguati di progettazione». Una linea che però non è piaciuta ai Municipi o alla Sovrintendenza capitolina, la quale teme così di perdere circa il 70 per cento dei fondi a lei destinata.
 

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