Cinquantuno certificati medici falsi, inviati al suo datore di lavoro, cioè la municipalizzata dei rifiuti, per potersi prendere settimane di riposo non dovuto. Un escamotage per continuare a guadagnare lo stipendio, nonostante per un mese e mezzo, invece di svolgere le mansioni per le quali veniva pagato, semplicemente si rilassava, oppure andava a fare la spesa, o addirittura usciva insieme agli amici. Adesso l’uomo si trova sul banco degli imputati con le accuse di falso e di truffa aggravata.
I MEDICI
A tradire il dipendente Ama infedele, sono stati tutti quanti i dottori - veri - che hanno ritrovato la propria firma in fondo a una sfilza di certificati taroccati.
Tutti gli attestati di malattia erano stati apparentemente emessi da medici in servizio nello stesso nosocomio. Nel giro di un anno l’uomo ne avrebbe presentati in azienda 51, e ogni documento gli assicurava giorni consecutivi di riposo. Con la firma della stessa dottoressa, per esempio, nel 2016 ha presentato certificati il 2 maggio, il 6, il 7, e ancora il 9 e il 10. Una cosa identica è successa il 7 e il 21 giugno. In tutti i documenti il dipendente Ama risultava «affetto da patologie varie e bisognoso di riposo», si legge nel capo di imputazione. Il 28 giugno, il primo agosto, il 7 gennaio e il 18 febbraio 2016, il nome del medico sotto l’attestato era ancora diverso: si trattava sempre di un dottore in servizio sempre al Cristo Re. Un escamotage portato avanti per un anno intero, fino alla denuncia da parte dell’azienda.
L’accusa di truffa aggravata viene contestata all’uomo per avere agito - si legge ancora negli atti - «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso» e anche «con artifici e raggiri consistiti nel presentare presso il proprio datore di lavoro la falsa documentazione medica, attestando la propria impossibilità di recarsi al lavoro». Le patologie di cui diceva di essere affetto, in realtà, come sottolineano i magistrati, erano «inesistenti». In questo modo, l’imputato sarebbe riuscito a ingannare l’amministrazione «sui presupposti per l’erogazione dello stipendio», procurandosi «un ingiusto profitto in danno dell’Ama». Contestazioni simili a quelle che il netturbino ha dovuto rispondere nel corso di un altro processo, nel quale è stato assolto.
I PRECEDENTI
La vicenda ricorda quella dell’ex autista Atac - licenziato dall’azienda - che durante i giorni di lavoro si esibiva nelle balere dei castelli romani, giustificando all’azienda la sua assenza con certificati di malattia. L’uomo, soprannominato “Il Califfo dell’Atac”, per la grande somiglianza con Franco Califano, poco tempo fa è stato pure condannato in primo grado per peculato: dopo essere stato trasferito in servizio al parcheggio di piazzale dei Partigiani, in attesa della conclusione del procedimento per truffa aggravata, avrebbe intascato i soldi versati dai romani invece di consegnarli all’azienda.