Quella lunga agonia dietro un paravento

di Paolo Graldi
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Giovedì 6 Ottobre 2016, 00:08
Siamo a Roma, in un grande nosocomio della Capitale, non ad Aleppo dove il dittatore Assad di preferenza fa bombardare gli ospedali, meglio se ci sono dei bambini. La morte lenta e tra atroci sofferenze di un uomo, malato terminale di cancro, ha attraversato un tempo dilatato quasi all’infinito, cinquantasei ore, prima che un infermiere concedesse la parola fine: «Il paziente è deceduto».

La morte con la sua ineluttabilità, il dolore incolmabile dei parenti che precipitano nel baratro del lutto e non sanno farsene una ragione, deve tuttavia avere intorno pietà e dignità, ha bisogno, in un contesto di civile convivenza, di rispetto, di una silenziosa solennità, di una comprensione condivisa. Bene, all’ospedale San Camillo, al Pronto Soccorso, per Marcello Cairoli questo obbligo a cui tutti hanno diritto è stato lacerato da un meccanismo che a malapena sa rintracciare un paravento per lasciare alla dignità anche solo l’unico angolo di corridoio.

Questa storia l’ha raccontata Patrizio, un giornalista, figlio di Marcello, in una lettera al ministro della Salute Lorenzin e adesso che si muoveranno gli ispettori sollecitati anche dal presidente della Regione Zingaretti sapremo come mai un malato di cancro in un ospedale grande come un quartiere non riesce a trovare, neppure per aspettare l’ultimo respiro, un posto che lo metta al riparo dal rumore di quel porto di mare che è un pronto soccorso dove chi arriva in codice verde o bianco trova una sedia, una barella, uno scampolo di pavimento in attesa del proprio turno. Ventinove malati adagiati sulle barelle, cinquantacinque trattati in sala di medicazione. Un porto di mare.

Tra i dettagli di quelle ore d’agonia il collega descrive il rumore incessante, i lamenti di chi soffre ma anche gli schiamazzi di qualche tossico fuori di testa, di pizze portate a chi ha fame e bibite a chi ha sete.

Il personale non basta, i medici fanno quello che possono. E tuttavia non è accettabile che un malato terminale, sbranato dai dolori alle ossa tenuti a bada dalla morfina, debba restare su una barella per cinquantasei ore: un paravento richiesto e ottenuto a fatica e un maglione steso tra il muro e il paravento solo per porlo al riparo degli sguardi di chi passa.

I medici, tre mesi fa, quando il male si è fatto avanti maligno e aggressivo non avevano nascosto la gravità della situazione: la radioterapia palliativa darà dei risultati, dicevano. Ma senza rappresentare nel dettaglio, forse, che il decorso del male sarebbe stato implacabile e che la soluzione andava cercata nell’aiuto di una Onlus, come l’Antea tra le altre, dove decine di volontari con alta professionalità si prodigano come angeli di giorno e di notte per accompagnare questi pazienti nell’ultimo cammino. A casa loro.

I famigliari di Marcello non hanno compreso a fondo che il tempo stava per scadere e così si sono ritrovati, per arginare le sofferenze, a dover ricorrere al Pronto Soccorso. Già, il Pronto Soccorso. Qui qualcosa è andato storto o davvero la crisi della struttura è talmente radicale da non poter far fronte a niente che non sia l’emergenza ma solo per chi ha più tempo dell’attesa richiesta.

Cinquantasei ore per morire su una barella, riparato da un maglione, come se quel brandello di stoffa fosse stato steso ad asciugare. È evidente che non si può, che non ci sono scuse accettabili, che se è vero che non c’era altro da fare allora significa che si è toccato il fondo. Dolore e rabbia e la giusta pretesa di capire fino in fondo l’accaduto si impongono. La perdita di un genitore è un lutto incolmabile di per sé, è un buco nero che ci accompagna per sempre, che non sapremo mai colmare ma soltanto placare e il ricordo degli istanti del distacco divengono una immagine pietrificata da custodire e proteggere, alla quale ricorrere col pensiero continuamente. Marcello Cairoli se ne è andato senza poter lasciare questo ricordo di sé perché la macchina di un grande Pronto Soccorso tra i suoi codici colorati non ha previsto, per un tempo lungo cinquantasei ore, una cameretta appartata, senza luci al neon, dove stringere la mano ai propri cari. 

E sentire la propria che, nel silenzio, si raffredda.
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