La paura di una follia che potrebbe abitare anche in casa nostra

di Paolo Graldi
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Lunedì 14 Marzo 2016, 00:04
Dice lo psichiatra: “Delitto illeggibile” e illumina la scena del delitto del Collatino con l’irrompervi di un Narciso maligno che deflagra in una violenza distruttiva alimentata da un desidero irrefrenabile di dominio sugli altri. Per schiacciarli, sopraffarli, annullarli. Scendono in campo gli specialisti del ramo, criminologi e scrutatori d’anime, nei salotti televisivi, sulle colonne dei quotidiani: tutti a cercare una spiegazione plausibile e convincente, in grado di inquadrare, sia pure clinicamente, quei giorni di orrore, di droga e di morte, impegnati a scandagliare la mente di quei giovani sciagurati, imbevuti di alcol e imbottiti di cocaina, in un crescendo di ludica (non lucida) follia, fino allo sgozzamento della vittima predestinata, attirata nel covo “per vedere che effetto che fa” ucciderla lentamente.

E così è stato. Luca Varani, racconta l’esito dell’autopsia, è morto dissanguato, dentro un corpo sul quale i suoi due aguzzini hanno infierito con coltelli da cucina e scagliandosi sul suo cranio con un martello. La scena del delitto, raccontata dagli stessi autori del crimine, non si sa ancora quanto premeditato, Manuel Foffo, il padrone di casa, e Marco Prato, l’amico gay intrappolato in una dipendenza non solo per la droga ma anche per il sesso estremo, amante dei travestimenti trash, succube e insieme esaltato dalla trasgressione senza limiti che gli veniva imposta ma che, anzi, accettava e cercava.

 

Week end di paura che si ripetevano, sempre più oltre il limite fisico e l’altrove della mente. Un sodalizio segreto che diventava rito macabro e che tendeva a coinvolgere altri soggetti, rastrellati via cellulare con chiamate suadenti o sms allettanti, per allargare il cerchio marcio della follia. Ragazzi passati da quell’appartamento di via Giordani e poi, per diverse ragioni, sfuggiti alla trappola che si è poi rivelata fatale per Luca Varani, adescato con la promessa di un compenso, centocinquanta euro più il buffet da sballo approntato chiamando e richiamando rifornimenti del pusher, millecinquecento euro di cocaina.

Droga che, si sa, circola senza problemi in certe parti della città ma che, si scopre ora, è proprio come chiedere un bicchier d’acqua e si viene serviti anche in locali che andrebbero altrimenti sorvegliati con il “biglietto Vip”. Ma è il movente di questa orgia tra maschi e simil-maschi finita nel sangue che non appare con chiarezza e contribuisce all’interesse davvero imponente verso il caso. Un fatto che va assai oltre la cronaca nera, al di là dell’omicidio intriso di sesso e di sangue, il gorgo infernale della droga e delle sue possessioni, eventi che si liquidano come squallide storie che non fanno fenomeno e non nutrono statistiche. No, in questo caso, l’eccezionalità dell’interesse che suscita è nutrito da domande inquietanti che, con le dovute differenze, si potrebbero formulare in molte famiglie normali, o almeno famiglie che vivono nella normalità. I racconti di Manuel Foffo e di Marco Prato, le silhouettes dei comprimari e delle comparse di questo dramma, svelano una normalità dietro la quale vi è ben altro che il disagio dei giovani, il conflitto con i genitori, la insensata sottovalutazione dei rischi di consumare cocaina e alcol fino ad annientarsi. Foffo ad un certo punto, quasi a disegnare sul cielo nero del suo destino prossimo venturo un movente accettabile e credibile, dispiega a verbale l’odio crescente verso il genitore, il padre Valter, lo stesso al quale ha confessato il delitto, che lo ha portato dai carabinieri, che lo ha descritto in tv da Bruno Vespa, come un ragazzo modello, certo con qualche leggera devianza, ma veniale, incidentale, venialissima. E invece lui, il figlio Manuel, che racconta del raptus omicida che lo ha pervaso allorché, chiacchierando con Marco Prato il discorso finisce sulla famiglia, sui genitori. Vien fuori che odia il padre fino a desiderarne la morte per sua stessa mano, «se fosse qui lo ucciderei all’istante», che il risentimento risale a dieci anni fa quando il genitore gli tolse il motorino, «è mio», per comprargli una Yaris, «mentre io volevo un Maggiolino».

Neanche la madre separata (abita nell’appartamento sotto quello del delitto) è amata, tutt’altro. Si salva il fratello «mi dispiace per lui, per il dolore che gli procuro». Ma anche Marco ce l’ha con i genitori, li vive come nemici: «Mi hanno trovato un appartamento per allontanarmi da loro». Lo scrutatore d’anime che invoca la discesa dall’inferno quotidiano il Narciso Maligno ci pensa su e poi sentenzia che non basta l’odio per la famiglia per giustificare o anche solo per comprendere tanta macelleria e quasi invita ad allungare lo sguardo, a guardare per vedere, se anche intorno a noi il disagio represso dei giovani che sfuggono ai controlli del dialogo e degli affetti, ha messo radici profonde, più velenose e aggressive di quanto non si possa constatare a prima vista. È la terribile domanda che attraversa il caso a tenerne alta l’attenzione e la tensione mediatica: è un caso isolato o il malessere che si rifugia nella droga, nell’alcool e cerca nella sopraffazione l’affermazione del sé è materia inafferrabile e tuttavia presente, vicina. Dove abita questa follia? Abita anche in casa nostra? In quella del vicino? Quel giovane, modello di giovane, ha dentro un fuoco che lo divora e lo trasforma in una sfera di odio puro, che rotola tra i nostri piedi e noi non ce ne accorgiamo finché non arriva la Morgue? Non basterà il processo, la verità giudiziaria, per rispondere ai mille interrogativi del “Caso del Collatino”. Ci vuole ben altro.
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