Mimmo Cavicchia e la Roma della Dolce Vita: «Liz chiuse gli occhi e mi disse: baciami»

Mimmo Cavicchia
di Roberto Gervaso
9 Minuti di Lettura
Venerdì 25 Novembre 2016, 14:09
Come andò quella sera, sotto le stelle, ai bordi della piscina, nella villa sull'Appia Pignatelli di Liz Taylor?
«In bianco».

Non fece nulla?

«Feci di peggio. Liz mi disse: “Facciamo un bagno”. Poi, chiuse gli occhi, gli splendidi occhi viola, e mi sussurrò: “Kiss me Mimmo”, baciami Mimmo. E lei? Li chiusi anch'io, e goffamente bisbigliai: “Why?” Perché? Come potevo baciare Liz? Liz era il mio mito e i miti sono sacri, non si profanano».

Come la prese l'attrice?

«Malissimo. Ma mi perdonò».

Era bella?

«Liz era bellissima, Liz era tutto. Quanto l'avevo sognata. E ora che potevo tradurre il sogno in realtà... Che occasione perduta, quella sera. Soli, io e Liz. Sopraffatto dall'emozione, mi lasciai sfuggire la preda dorata e donata».

Chi era la Taylor?

«Non una dea: un intero pantheon. Forse non esisteva, non era mai esistita. Un miraggio, una chimera, una fata morgana».

Lei l'amava?

«E' stata la donna che più ho amato. Forse, la sola per cui mi sarei immolato e annullato».

Corrisposto?

«Forse. Ah, se quella sera l'avessi baciata».

Come la conobbe?

«L'attrice, al cinema; la donna, la vidi la prima volta mentre varcava la soglia del Grand Hôtel».

Sola?

«La Taylor non era mai sola. Sempre con la sua corte e la sua scorta».

Liz la notò?

«E come avrebbe potuto, in mezzo a quella folla di curiosi, di fan, di fotoreporter? Mi feci avanti, sgomitando. Ero come in trance. Mi avvicinai e, l'indomani, sui giornali uscì la nostra foto. Io anonimo ristoratore romano, lei, la primadonna del cinema, la protagonista di tanti capolavori, la vincitrice di due Oscar, la “gatta sul tetto che scotta”».

E poi?

«Liz raggiunse la sua suite e io rincasai. Passai la notte in bianco, ossessionato da quella visione. Liz, dunque, esisteva. Decisi di farla mia».

Di farla sua?

«Non come uomo, non come maschio: come il più devoto degli adoratori. Non persi tempo, e la mattina mi precipitai dal più vicino fioraio, scelsi la più bella corbeille e gliela mandai in albergo con un biglietto».

La ringraziò?

«Non lo so. Ma che importanza aveva? La sera stessa la invitai alla Taverna Flavia, il mio ristorante. E la sedussi».

Con i sensi?

«No: con i fornelli».

Era golosa?

«Golosissima di spinaci e rughetta, cannelloni ripieni di carne di pollo, mozzarella e prosciutto».

Beveva?

«Solo Jack Daniel's. Anche una bottiglia».

Il suo fascino?

«Gli occhi, il seno, le caviglie. Una donna così non si dimentica».

Diventaste amici?

«Più che amici».

Amanti?

«Mai, dopo quel bacio offerto e rifiutato. E non per orgoglio, ma perché non mi sentivo degno di un'intimità che mi aveva confuso, stordito, forse, perduto».

Liz veniva spesso a cena da lei?

«Sempre, quando girava un film a Roma e si fermava per lunghi periodi, ma anche quando era di passaggio e la sua sosta non durava più di due-tre giorni. Frequentava solo il mio locale».

Chi l'accompagnava?

«Un codazzo di segretari, sarte, parrucchieri, press-agent».

A che ora arrivava?

«Tardi, tardissimo, mai prima di mezzanotte. Anche alle due».

E lei?

«Aspettavo solo un suo cenno del capo, un suo invitante sorriso per avvicinarmi e salutarla».

E Liz?

«Mi abbracciava e mi baciava. Mi voleva vicino, mi stringeva la mano, mi presentava agli amici come il più intimo degli amici. Io, sempre in trance, pendevo dalle sue labbra, soggiogato da quello sguardo dolcissimo e volitivo».

L'ha mai vista ubriaca?

«Ubriaca, mai. Alticcia, allegra, spesso».

Quando non veniva da lei, dove andava?

«Gliel'ho detto: veniva solo da me. O stava nella sontuosa villa sull'Appia Pignatelli con la sua corte, la sua scorta, il cuoco personale. Ma la spesa la facevo io, io sceglievo i menu. Tanti spinaci, tanta rughetta, tanti cannelloni, tanta carne di pollo».

Solo di pollo?

«No, anche di manzo. Ogni mattina le mandavo quattro bistecche di primo taglio. Finché un giorno il cuoco mi esonerò dalla spesa».

Perché?

«Perché le bistecche – secondo lui - non erano abbastanza tenere per il palato dei due cani di Liz».

Fu spesso ospite della villa dell'attrice?

«Una sola volta. E mi bastò».

Perché?

«Troppi fumatori, troppi ubriachi. E, all'ingresso, un negro enorme in stato d'ebbrezza e morto di sonno».

Lei mandava frutta, verdura, rose e orchidee alla Taylor. Liz come ricambiava?

«Con gigantografie dedicate a Mimmo e, una volta, con due sandali di scena che conservo in una bacheca nella saletta del ristorante dedicata a “Little Liz”. Li aveva indossati in “Cleopatra”».

Altri regali?

«Un assegno di cento milioni. Milioni di allora. Milioni degli anni Settanta».

Come lo spese?

«Non lo spesi: lo stracciai. Liz voleva che rilevassi un famoso ristorante in quel momento in vendita. Ma io avevo il mio, e mi bastava».

Si offese?

«Non lo so. Ma che importanza aveva? Per Liz cento milioni erano spiccioli. A Hollywood nessuna attrice guadagnava quanto lei».

La Taylor ebbe una mezza dozzina di mariti. Ne conobbe qualcuno?

«Non conobbi il muratore, uno degli ultimi, ma conobbi bene Michael Wilding, morto in un incidente aereo, e Richard Burton, il più amato, che Liz sposò, lasciò (o fu lasciata), risposò. Un grande attore, un vero macho. Una mattina bussò alla porta del ristorante e si fece servire sette birre. Gli piaceva tanto la birra. Non lo vidi mai con in mano un bicchiere di vino».

Alzava spesso il gomito?

«Spessissimo. Perdeva il controllo di sé e dava in escandescenze».

E Liz?

«Gli faceva grandi scenate e lui usciva dal locale barcollante e smoccolante. Altri tempi».

Altri incontri femminili?

«Ava Gardner, Audrey Hepburn, Lauren Bacall, Jane Fonda, Esther Williams, Abbe Lane, Natalie Wood».

Ava Gardner. Con chi veniva alla Taverna Flavia?

«Con Walter Chiari, che lei inseguiva ovunque. E ovunque lui inseguiva lei. Partiva il venerdì sera per l'Australia, dove Ava girava un film, e tornava a Roma la domenica. Erano follemente innamorati.
Gelosa, possessiva, imperiosa, Ava piangeva se Walter la faceva soffrire
».

Era molto sexy?

«Le gambe, uno schianto. E che occhi meravigliosi, che sguardo. Lo sa cosa disse il torero Dominguin dopo una notte d'amore passata con lei?»

Cosa disse?

«È più facile domare un toro nell'arena che Ava a letto».

Veniva anche da sola?

«Sì, ogni tanto, a pranzo. E io le tenevo compagnia».

Ci fu qualcosa fra voi?

«Purtroppo, no».

L'ultima volta che la vide?

«Molti anni fa. Prima di andarsene, mi regalò l'ancora d'oro che portava al collo».

Altre clienti famose?

«Audrey Hepburn, accompagnata dal marito Mel Ferrer. Era una donna di strepitosa classe, riservata, che non dava confidenza e non ne ispirava. Me la presentò il duca Marcello Caracciolo di Laurino, che aveva organizzato una festa in suo onore - e con i soldi della diva - nel mio locale».

Era un uomo ricco, il Duca?

«Era un finto povero, che viveva all'Excelsior, mangiava da me e non pagava conti. Quando morì lasciò al figlio duecento milioni. E a lei? Una vecchia sveglia».

Con chi veniva al ristorante Lauren Bacall?

«Con l'amante americano. Bella, bellissima, sexy, sexyssima Ogni volta che la vedevo, mi scioglievo».

E Jane Fonda?

«La sua passione erano le penne all'arrabbiata. Una notte mi telefonò da Cannes per farsi dare la ricetta».

Esther Williams?

«Che corpo, che gambe, che sorriso. Mai sola, sempre con il marito, Fernando Lamas. Era una donna alla mano, di ottimo umore».

Abbe Lane?

«Sposata con il direttore d'orchestra Xavier Cugat, aveva fianchi mozzafiato. Sa cosa mi disse una sera?»

Cosa le disse?

«“Mimmo, non ho mai conosciuto un uomo più charmant di te”».

Lo era davvero?

«Avevo trent'anni, mi sentivo brutto, ma a letto ero un fulmine di guerra».

Cosa ricorda di Natalie Wood?

«Si presentava la sera tardi con Warren Beatty che beveva come una spugna e si abbioccava sul tavolo».

Lei ne approfittava?

«Ogni volta che mi avvicinavo a Natalie per baciarla, lui apriva gli occhi».

E lei?

«Aspettavo che li richiudesse. Ma poi li riapriva».

Altri illustri habitué del suo locale?

«Frank Sinatra, John Wayne, Burt Lancaster, Yul Brynner, Alain Delon, Burth Reynolds, Gregory Peck».

Che ricordo ha di Frank Sinatra?

«Mangiava poco, e solo penne all'arrabbiata».

Beveva?

«Né vino né birra: whisky. Una bottiglia di Jack Daniel's a pasto. Come Liz»

L'ultima volta che lo vide?

«Quando venne a Roma per un concerto di beneficenza. Indossava un vestito troppo stretto, era molto invecchiato e aveva una pessima cera. Litigò per tutta la cena con Barbara, la quarta moglie, vedova di uno dei fratelli Marx».

E John Wayne?

«Affettuoso e cordiale, almeno con gli amici (e io lo ero). A Roma fu operato per un tumore da Frank Silvestri, medico-chirurgo italoamericano. Era un uomo serio, alieno da pose spavalde».

Burt Lancaster?

«Veniva al ristorante con moglie e figli e divorava montagne di bucatini all'amatriciana. Tifoso della Roma, una domenica lo portai allo stadio. La Roma era allora anche la mia squadra, ma quel giorno perse contro il Bari. I tifosi invasero il campo e la polizia fece uso di lacrimogeni. L'indomani, i giornali pubblicarono una foto dell'attore con gli occhi umidi e arrossati. Scrissero che aveva pianto per la sconfitta dei giallorossi. Ma non era vero. Tutta colpa dei lacrimogeni».

Di Yul Brynner cosa ricorda?

«Le scorpacciate di agretti».

E di Alain Delon?

«Era così ghiotto di tartufi e di quaglie che gliele spedivo per aereo anche a Parigi».

Com'era Gregory Peck?

«Riservato, educatissimo, frugale. Sempre con la moglie».

Il cliente più antipatico?

«Costantino di Grecia e la madre Federica. Non ho mai visto un re, anche in esilio, mangiare tanti ravanelli crudi».

Il più simpatico?

«Tanti. E nessuno più di David Niven. Che eleganza, che classe, che stile».

Tutti vip del cinema i frequentatori del suo locale?

«No. Anche politici italiani e stranieri».

Gli stranieri più famosi?

«Nixon, allora vicepresidente repubblicano degli Stati Uniti (alla Casa Bianca c'era Eisenhower). Venne con un amico avvocato romano e due altre persone. Non avevano prenotato, non c'era un tavolo libero e dovettero aspettare».

Cosa mangiarono?

«Una fiorentina grande come un lenzuolo».

E i politici italiani?

«Pella, Segni, Leone, Cossiga, Rumor (lo sa che portava iella? Ogni volta che andava al governo, si abbattevano sull'Italia un mucchio di guai)».

E ora parliamo un po' di lei. Dove, e quando, è nato?

«Sono nato a Roma nel 1936, da padre ristoratore abruzzese. Lo chiamavano il “re dei supplì e dell'abbacchio allo spiedo”. La Taverna Flavia l'aprì dopo il 1945, a guerra finita».

Lei, quindi, è figlio d'arte.

«E ne sono fiero».

Che studi ha fatto?

«Sono laureato in giurisprudenza. Ma mi ci sono voluti trent'anni perché lavoravo molto e l'alcova occupava parecchio del mio tempo libero».

È sposato?

«Se non mi fossi invaghito di Liz Taylor, avrei sposato una paesana».

Se tornasse indietro?

«Nessuno torna indietro, ma oggi mi manca la famiglia».

Con che animo ricorda gli anni spensierati della “Dolce Vita”?

«Con nostalgia e un po' di malinconia. A proposito di “Dolce Vita”, non nacque – come si crede – in via Veneto».

E dove nacque?

«Qui: alla Taverna Flavia. I vip del cinema venivano a cena, poi si trasferivano ai bar di via Veneto. E sa perché?»

Perché?
«Soffiava il ponentino, che non c'è più, spazzato via dal cemento e dai bussolotti dei caffè alla moda».

Cos'è rimasto di quel mondo?

«Le centinaia di foto che tappezzano le pareti del mio locale. Sono il mio passato. Peccato che la vita sia così breve. Lo è per tutti, ma i ricordi restano. Solo i ricordi. E le mie penne “alla Flavia”».
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