La Capitale è altro/Lezione Spelacchio: a Roma serve il bello non la compassione

di Mario Ajello
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Domenica 17 Dicembre 2017, 00:05
Tutti lo denigravano, e qualcuno ancora lo fa. Ma piano piano Spelacchio, incolpevole oggetto di sfottò in quanto rachitico e costoso, comincia a suscitare compassione e pietas. E ieri intorno all’albero di Piazza Venezia si sono avvicinati centinaia di turisti.

Sarà perché il Natale rende tutti più buoni, tanta gente lo ha accarezzato e molti romani - con il loro buon cuore che parteggia sempre per gli sfortunati e con il loro spirito che si diverte amabilmente quando c’è un marziano a Roma - hanno fatto selfie insieme a lui. Per poi twittarli in tutto il mondo, dove le disavventure di Spelacchio sono diventate proverbiali.

Al punto che un’agenzia di stampa del Ghana ha così espresso la sua preoccupazione: «La tristezza di Spelacchio sta intristendo il Natale a Roma». Un po’ è così e un po’ non lo è del tutto. Forse è l’estetica del brutto e il gusto per la decadenza che attrae gli spettatori, ma di fatto - dopo tante ingiurie - cominciano ad arrivare da altre città richieste di adozione a distanza per l’abete di Piazza Venezia. C’è chi vuole portarlo in Svizzera, per farlo morire di eutanasia. Chi gli si rivolge così: «Tieni duro Spelacchio». Chi gli dedica poesiole in rima: «Er popolo romano / vedendo er pateracchio / lo ribattezzò Spelacchio». Chi lo difende meravigliosamente: «Tutti ad attaccare Spelacchio, quando non è stato neanche indagato. Vergogna!». 

Occorre chiedersi a questo punto come mai da oggetto polemico quest’abete - al netto della sua scarsa prestanza fisica - stia attirandosi una dickensiana solidarietà. Persino da parte di quello che dovrebbe essere il suo rivale: il Rigoglio - così battezzato dal Messaggero - che è il collega molto più bello piantato a Piazza San Pietro e che nell’account @Rigoglio1 inventato da qualcuno per lui offre un patto di amicizia a Spelacchio. Con queste parole: «Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico». Anche l’abete polacco ha deciso insomma di aiutare il poverello di Piazza Venezia. E non è da escludere che a ridosso di Natale, ai piedi di Rigoglio e con la sua benevolenza, non venga organizzata una colletta - o una trasfusione - per salvare la vita a Spelacchio che rischia di non arrivare a Capodanno ma neanche a Santo Stefano.

Continuando sul motteggio - ma poi arriviamo al nocciolo della questione, che è seria - si può pensare che la rivalutazione morale del poveretto sia dovuta al fatto che Spelacchio è brutto ma simpatico. Almeno a giudicare dai continui cinguetti che manda. «Ora che c’è la legge sul biotestamento, fatemi morire», «Ecchime qua, che la tristezza sia con voi», «Non sono brutto, sono sobrio», «Ho più follower che rami». E parla pure in romanesco, pur essendo d’origini trentine: «Virgì - dice rivolto alla sindaca - qui se stanno a lamentà. To sei conservato ‘o scontrino? Che ancora sto in garanzia». Oppure: «Ao, sto sempre spento. Ma le pagate le bollette?». E poi: «Giornate come queste se starebbe bbene sotto le pezze». Ma anche fuori dalle coperte, sembra un albero addormentato. E non ha neppure la forza di russare ma comincia a piacere - ecco forse il motivo vero del suo insperato e paradossale successo - perché inconsapevolmente sta trasmettendo un messaggio a tutti e non è di tipo spiritoso come quelli di cui sopra.

Ovvero? Che a Roma anche una cosa bella, e in origine Spelacchio lo era, tutto frondoso e verdeggiante, quando è nelle mani degli attuali inquilini del Campidoglio finisce per rovinarsi. Il problema, evidenziato da questa piccola grande storia politico-morale-floreale, è che Roma è città tutt’altro che sprovvista di eccellenze - figuriamoci: ne ha più di ogni altra capitale al mondo! - ma sembrano sparire o non esistere se affidate alla gestione capitolina che, negli ultimi anni, s’è mostrata incapace di far brillare le tante cose belle di cui ci si potrebbe vantare. E non sapendole maneggiare finisce per dare dell’Urbe una brutta immagine, degradandola. Il caso Spelacchio ci sta portando troppo lontano da lui? No. Perché in altre mani la sua sorte di ex aitante alberone, ridottosi a scheletro, sarebbe stata diversa. La riprova che l’approccio capitolino al ribasso è quello che non funziona è rintracciabile in un esempio su tutti. La stessa sindaca Raggi non ha preferito - proprio per una sana punta di orgoglio - sfoggiare per la prima dell’Opera uno splendido décolleté, da tutti ammirato, anziché l’anonimo abitino indossato lo scorso anno?

La lezione Spelacchio è dunque divisa in due parti. La prima: a Roma serve il bello, non la compassione. La seconda: l’abete diventato salice piangente ha avuto la sfortuna, ed è in compagnia di ville e musei a gestione comunale, di finire nella parte sbagliata del campo. Quella in cui la cura è sostituita dall’incuria. La quale può pure essere oggetto di selfie, come sta accadendo in queste ore a Piazza Venezia, ma rappresenta un boomerang planetario per la Capitale d’Italia.
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