Garantisti e politica/ Conta di più un errore che un avviso di garanzia

di Carlo Nordio
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Mercoledì 21 Dicembre 2016, 00:19
Il proclama di Beppe Grillo che l’amministrazione Raggi non sarà fermata con gli avvisi di garanzia è di per sé una buona notizia. Poiché abbiamo sempre sostenuto che questa “informazione” è un atto dovuto che non significa condanna, e nemmeno imputazione, prendiamo atto con gioia che anche la roccaforte del giustizialismo pentastellato è finalmente crollata. È crollata davanti all’evidenza del diritto, perché la funzione dell’avviso è chiaramente deducibile dalla sua stessa formulazione letterale; ed è crollata, con meno dignità, davanti al timore che la Raggi venga eliminata, come tanti altri prima di lei, per via giudiziaria.

Come tanti altri? Sì, come moltissimi altri. Perché questa indecorosa e maligna perversione della legge è uno strumento di cui la politica si serve da venticinque anni per sopprimere gli avversari. La vittima più illustre fu Berlusconi, al quale la cartolina fu spedita per via giornalistica, in barba al più elementare segreto istruttorio. E da allora la storia è continuata con un crescendo vergognoso, sì da devolvere di fatto alle Procure la sorte degli eletti e persino dei candidati. Questo scandalo, aggravato dalla sapiente gestione delle intercettazioni telefoniche, ha compromesso e condizionato il panorama istituzionale della cosiddetta seconda repubblica. La formula estromissiva era di un’ipocrisia petulante: la richiesta di un opportuno, responsabile e temporaneo “passo indietro” che in pratica significava la fine politica del destinatario.

Ora il Pd annuncia che un’iscrizione nel registro degli indagati non giustifica e non giustificherebbe il ritiro del sindaco di Milano o di Roma. Speriamo che sia una posizione definitiva, perché non è sempre stato così. La conversione garantista della sinistra ha alcuni padri autorevoli, come Macaluso e Pisapia, ma non è mai stata chiara né definitiva. Lo stesso irrigidimento sull’applicazione a Berlusconi della Legge Severino, che in quanto norma afflittiva non poteva essere retroattiva, ha dimostrato che spesso il Pd ha sacrificato le sue timide aspirazioni libertarie all’occasione propizia di un avversario da rimuovere. Nemmeno con Marino si è rinunciato al colpaccio. Il professore sarà stato un disastro di amministratore, ma è pur sempre stato eliminato, direttamente o meno, per via giudiziaria. Che ora il Pd difenda Sala, e di conseguenza la Raggi, che fu eletta per le ragioni che ora lo stesso Pd ripudia, suona almeno come paradosso.

E infine i grillini. La loro fortuna, si dice, è stata costruita sull’incapacità degli altri. Se così fosse, non vi sarebbe nulla di strano né di scandaloso. In politica molte fortune sono state costruite raccattando i cocci altrui. Il fatto è che questi materiali sono stati aggregati con un unico collante: il vanto monopolistico di purezza etica e di verginità processuale. Ed ora che la costruzione rischia di franare, ci si affida a precarie e forse temporanee iniezioni di garantismo, giustificato dall’invocazione dell’ingenuità della neofita. Ma questo è un rischio persino peggiore. Perché, anche se la Raggi fosse coinvolta in un’indagine per colpe altrui, e ne uscisse prosciolta “per ingenuità”, il messaggio finale sarebbe non meno grave, risolvendosi nella sostanziale ammissione di incapacità nella selezione dei collaboratori, e di inidoneità al compito assuntosi. A una Raggi “raggirata” resterebbe appiccicato il terribile rimprovero che Talleyrand (o Fouché) rivolse a Napoleone dopo l’esecuzione del duca di Enghien: «Maestà, questo è peggio di un crimine, è un errore».
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