Sul Bilancio l’approccio sbagliato alla Capitale

di Oscar Giannino
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Sabato 10 Settembre 2016, 00:34
La nuova guida della Capitale scelta dai romani è sinora incorsa in una serie clamorosa di errori. Prima ancora di esser riusciti a formare una giunta capace di iniziare a lavorare, l’effetto politico ottenuto sin qui porta vantaggio ai partiti che hanno sgovernato Roma per decenni, sinistra e destra. Ma di sicuro aggrava il conto ai romani. E rivela sin qui un’inaspettata e clamorosa mancanza di visione su cosa fare a Roma. Oltre a fortissime divisioni interne, e a un’elevata dose di incompetenza e colpevole distrazione nell’esaminare profili e pregresso delle personalità che, nel solo giro di pochi giorni, sono già saltate da ruoli apicali loro assegnati, si trattasse di diretta collaborazione col sindaco, di assessorati, o a guida delle maggiori partecipate municipali. 
Tutto questo avviene malgrado fosse chiaro da molti mesi che le elezioni avrebbero con ogni probabilità registrato una vittoria dei 5 stelle. Di tempo per prepararsi ce n’è stato. Ma non è stato messo a frutto. Di tutto ciò che si è squadernato sotto i nostri occhi, si possono dare giudizi politici più o meno aspri a seconda di come si valuti ciò che il Movimento 5 Stelle può dare oggi e in futuro all’Italia. C’è un punto, però, che sinora non è stato colto. Perché non ha a che vedere coi giudizi politici. Ma è strutturale e di sostanza. Non è un caso, che siano saltati in successione già due assessori al Bilancio, Minenna prima e De Dominicis poi.

Al di là del motivo delle due dimissioni – il dissenso di Minenna sulla cacciata del capo di gabinetto del sindaco, l’avviso di garanzia taciuto da De Dominicis – quel che risalta è un altro fattore. Il sindaco e i 5 stelle hanno vinto le elezioni ma non avevano pensato a un uomo del profilo, delle competenze e del polso necessario per tenere in pugno la barra fondamentale per realizzare ogni iniziativa e decisione che il Campidoglio vorrà assumere. In una città dal bilancio sano o solo moderatamente stressato, si può anche immaginare di affidare il Bilancio a un tecnico magari di seconda fila, e fedele al sindaco. Ma Roma non è in tali condizioni. La finanza pubblica romana è tanto devastata e compromessa che non solo postula una grande e netta visione strategica politica, su alcune scelte prioritarie di fondo. Impone anche una personalità che per prima abbia straordinarie competenze di gestione e riorganizzazione pubblica. Quel che serve è un grande manager di ristrutturazioni, in conto economico e patrimoniale, premessa senza la quale non si genera la finanza necessaria per intervenire sulla macchina pubblica del Campidoglio, dei Municipi e delle grandi società partecipate di servizi pubblici.
Dopo l’addio di Minenna, il sindaco è passato a scegliere nella filiera dei magistrati contabili. Immaginiamo dipenda dalla priorità assegnata alla trasparenza e legalità delle procedure e delle poste di bilancio. Ma è un errore. A Roma non serve un assessore la cui esperienza sia maturata nella ragioneria pubblica e nei giudizi di parificazione amministrativa. Alla Capitale serve un manager eccezionale di ristrutturazioni pubbliche. Il suo compito è quello politicamente più rilevante, insieme al sindaco. E deve godere di una fiducia forte perché avrà inevitabilmente bisogno di una certa autonomia, non potrà chiedere il permesso preventivo a cupole politiche sovraordinate al sindaco sia a livello romano, sia nazionale. 

Solo una figura di grande rilievo può aiutare il sindaco a trovare le risposte prioritarie che i romani attendono di conoscere. A cominciare dalla gestione del debito ereditato. Dai tempi di Alemanno, Roma ha goduto di un’amministrazione straordinaria separata dei suoi debiti accumulati: allora ammontavano a circa 18 miliardi, oggi superano ancora i 13 miliardi. E la gestione commissariale affidata a Silvia Scozzese ha reso noto che dal 2017 si porranno comunque problemi, perché i flussi di cassa generati non saranno tali da sostenerne più la gestione ordinaria e il rientro. Come s’intende affrontare il problema? Con entrate attualmente pari a 5,1 miliardi di cui il 57% da tasse, il bilancio resta paurosamente squilibrato, con un tendenziale disavanzo che all’inizio della gestione commissariale di Tronca sfiorava il miliardo annuo. Ma i romani subiscono già il massimo delle sovra aliquote Irpef e Irap sommando Comune e Regione, pagano oltre 750 euro l’anno oltre la media nazionale. Non pesa solo la rata annuale di ammortamento del debito. È la macchina comunale a essere divenuta incapace di entrate proprie in percentuale accettabile delle entrate: perde oltre 100 milioni di affitti l’anno sul suo patrimonio immobiliare, sconta 1,3 miliardi di euro di mancati pagamenti Tari (che vanno direttamente nelle casse dell’Ama, diversamente che in tutti i Comuni italiani) e 1,5 miliardi di mancate tariffe per servizi, non riesce a processare l’anno oltre il 10% degli arretrati Imu. Asili, mense, affitti, mercati: cosa s’intende fare per colmare l’incredibile gap che vede Roma incassare solo 900 milioni l’anno aggiuntivi ai trasferimenti centrali e alle tasse, rispetto ai 4 miliardi di euro di Milano, che ha meno della metà degli abitanti? A quali principi si ispirerà l’azione di riscossione dei crediti, che si limita a 15 milioni di euro l’anno rispetto al mezzo miliardo di Milano? Oppure s’immagina di ricontrattare con il governo centrale i trasferimenti dovuti a Roma Capitale, ricordando però che allo stato attuale i trasferimenti dal bilancio nazionale già ammontano a quasi 900 milioni? Si confermeranno i tagli pluriennali alla spesa corrente disposti dal commissario Tronca, che in pochi mesi aveva individuato riduzioni della spesa corrente pari all’8% del bilancio complessivo? 
A queste pesantissime premesse, si aggiungono le scelte conseguenti da esercitare sull’organizzazione e la trasparenza sia della macchina capitolina, sia delle partecipate.

A tutti i livelli, dagli assessorati ai Municipi, occorre una riforma radicale: c’è un problema di gestione e controllo dei dati, di regole, e di risorse umane. Si pensa oppure no di superare i sistemi informatici tra loro non interfacciati e usati da ogni Dipartimento e Municipio per gestire appalti, gare e affidamenti, che compartimentano e ostacolano ogni processo centralizzato di controllo? Si rottamerà la prassi invalsa di attribuire ogni singolo affidamento alla valutazione del dirigente responsabile del procedimento, senza omogeneità di criteri? Che norme fissare per impedire l’aggiramento degli obblighi di gara attraverso il frazionamento degli importi per procedere ad affidamenti diretti, e scongiurare la protrazione per anni e anni, in alcuni casi addirittura venti, degli affidamenti scaduti, prassi che ha intrecciato insieme collusione amministrativa e prassi corruttive? Venendo alle risorse umane: cominciando dai dirigenti, quali saranno i criteri di rotazione degli incarichi? Come si pensa di risolvere la questione del salario di merito dei dipendenti su cui è aperta la trattativa, visto che Roma deve restituire oltre 200 milioni per aver proceduto per anni ad attribuire una media fino al 50% del salario ordinario come fittizia retribuzione di produttività?
A Roma fanno purtroppo capo le due grandi municipalizzate più disastrate d’Italia: Atac e Ama. La prima ha ottenuto in 5 anni sussidi pubblici per 4,3 miliardi di euro, riuscendo tuttavia a sommare deficit per 1,1 miliardi. Ha 12 mila dipendenti con un costo medio lordo annuo di 46mila euro che è ai vertici di settore nazionale, e ciò malgrado vi sono avvenuti 540 scioperi in 6 anni. Con oltre 20mila appalti assegnati senza gara tra 2010 e 2015. Cioè il 90% delle commesse senza un bando. L’azienda non ha finanza per i necessari investimenti sul parco circolante dei mezzi. Il Campidoglio da dove reperirà le risorse?

Quanto all’Ama: dovendo raccogliere annualmente oggi oltre 17 milioni di quintali di rifiuti, occorre chiudere il ciclo industriale del loro trattamento. Come, se per esempio per lo smaltimento di quelli organici è a disposizione un solo impianto? A che scopo vantare miglioramenti virtuosi della raccolta della differenziata, se poi Ama oggi per il suo ciclo industriale riesce a ottenere dalla vendita al mercato delle sue componenti solo un ventesimo per unità di peso dei migliori concorrenti? In 8 anni la tariffa domestica sui rifiuti a Roma è balzata del 43%, quella per le imprese del 72%. Nel 2013 sono state bollette per 719 milioni su 744 di costi, nel 2014 la Tari è salita a 773 milioni, nel 2015 a 793, quest’anno dovrebbe essere di 798. E Ama nel frattempo è rimasta anche indietro pesantemente nell’incassare, facendosi anticipare le mancate riscossioni per 1,2 miliardi a titolo oneroso dalle banche. Ciò malgrado, il costo per tonnellata di rifiuti a Roma risulta 4 volte superiore a quello di Milano. Ma l’assessora sin qui prescelta, che ha taciuto di essere indagata, ha lavorato negli anni come consulente per le società che approfittano del mancato ciclo chiuso di trattamento da parte di Ama, romane laziali e friulane: non è esattamente la premessa per poter oggi immaginare che il suo obiettivo sia quello di disintermediarle.
Fermiamoci qui. Speriamo di essere stati chiari. Il sindaco scelga un assessore al Bilancio capace di tutto questo, e non abbia paura se il prescelto ha una personalità forte. Perché solo così i romani potranno avere speranza, un giorno, di pagare meno per ottenere di più.
 
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