Paralisi a Roma/La rivoluzione mancata senza classe dirigente

di Alessandro Campi
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Lunedì 5 Settembre 2016, 00:12
Che Roma fosse una città difficile da governare era risaputo. Che potesse trasformarsi in un calvario per il nuovo inquilino del Campidoglio era un timore largamente circolato prima del voto. Quel che era difficile prevedere in queste proporzioni è il caos politico-amministrativo nel quale, a poche settimane dall’insediamento, è piombata la giunta guidata da Virginia Raggi.

Ciò che colpisce della situazione odierna, in realtà, non è solo la girandola di nomi, incarichi e poltrone determinata dalle lotte tra fazioni, dai personalismi e da un certo pressapochismo nell’applicazione di norme e regolamenti. Quella che proprio ancora non si vede - oltre l’ossessivo proporsi del sindaco e dei suoi come gli unici paladini della trasparenza e dell’onestà - è un’idea progettuale, una visione costruttiva e minimamente ambiziosa della città, dalle quali possano poi scaturire decisione e scelte destinate ad incidere concretamente sul futuro della Capitale e dei suoi abitanti. 

Da una parte, si rifiutano aprioristicamente grandi eventi che potrebbero dare visione e orizzonte alla città. Ma far circolare i tram, manutenere le strade e rimuovere i rifiuti - ordinaria amministrazione trattata alla stregua di un’emergenza permanente senza peraltro riuscire a gestirla con un minimo di efficienza - è tutto quello che si può immaginare come destino per una città come Roma? I vertici del M5S imputano l’attuale caos, giudicato momentaneo e creato ad arte, alle manovre occulte degli avversari.

E da non meglio precisate forze ostili che avrebbero tutto da guadagnare dal permanere di una condizione d’instabilità. Ma è un vittimismo assolutorio e vagamente paranoide che non si addice a una forza politica che ha ottenuto dai cittadini romani un consenso non plebiscitario (visto il numero dei votanti effettivi) ma certamente ampio. Piuttosto che cercare capri espiatori tanti facili quanto generici, da parte dei grillini sarebbe forse più utile un po’ di salutare autocritica. Si scoprirebbe così che quel che sta succedendo a Roma (ma anche in altre città da loro governate) è anche frutto di errori che un movimento politico che ambisce al governo nazionale avrebbe tutto l’interesse a correggere.

Bisognerebbe riflettere, in particolare, sui criteri di selezione del proprio personale politico. Per evitare contaminazioni esterne (il mito della purezza e dell’incorruttibilità), ma anche per garantirsi il massimo del controllo e dell’influenza sugli eletti, Casaleggio (finché era in vita) e Grillo hanno imposto come procedura le primarie on line tra gli aspiranti candidati. Questi ultimi debbono essere iscritti, possibilmente di lungo corso, del M5S. Coloro che li scelgono sono invece gli attivisti regolarmente registrati come utenti sul blog del comico-demiurgo. Una minoranza assai ristretta di militanti decide dunque chi, all’interno dei propri ranghi, può ambire a incarichi politici. Si ricorderà come alle votazioni on line che portarono alla scelta della Raggi parteciparono 3.862 iscritti su circa 9.500 aventi diritto e che i voti da lei ottenuti furono appena 1.764.

Si tratta di un meccanismo legittimo ma non si sa quanto trasparente, di certo autoreferenziale, chiuso e settario, che se da un lato premia l’appartenenza e la fedeltà (cui si accompagna, come si è visto nell’esperienza, la messa al bando del malcapitato di turno al minimo segnale di dissidenza o eterodossia), dall’altro favorisce la selezione di figure che quasi mai hanno una loro personale visibilità o una autonoma base di consenso nella società. Del resto fa parte dell’utopia grillina l’idea che i cittadini, in quanto elettori, valgano tutti allo stesso modo, che tutti loro possano aspirare al governo e che per reggere la cosa pubblica, per parafrasare Lenin, basta una cuoca purché onesta e capace di utilizzare un computer. 

Per una realtà che si propone, sul piano della propaganda, di favorire la partecipazione dal basso, di portare i cittadini dentro le istituzioni e di contrastare la deriva oligarchica e verticistica della politica tradizionale questa incapacità ad aprirsi verso l’esterno per timore di venire contagiati (cui si aggiunge la ripulsa ideologica per tutto ciò che possa essere considerato élite sulla quale, su queste pagine, ha già richiamato l’attenzione Marco Gervasoni), rappresenta non solo una vistosa contraddizione sul piano politico, ma anche un fattore di crescente debolezza: produce l’effetto di ritrovarsi a gestire il potere, quando lo si conquista, con un personale politico fedele alla causa e al leader ma quasi mai all’altezza del ruolo. 
 
Colpisce, su questo punto, la differenza tra il M5S e una realtà per certi versi assimilabile come quella spagnola di Podemos. Che al momento di scegliere i propri candidati per le amministrative del giugno 2015 non si affidò a militanti ortodossi, che potessero vantare come unici titoli l’inesperienza, la giovinezza e la probità, ma a personalità consolidate scelte fuori dal movimento. Ciò ha portato all’elezione a Madrid di Manuela Carmena, giudice emerito della Corte Suprema di Spagna, già nota per le sue battaglie contro la corruzione; e all’affermazione a Barcellona di Ada Colau, conosciuta per il suo impegno sociale a favore degli sfrattati e dei senza casa.
Pablo Iglesias non è meno accentratore o autocrate di Grillo, o meno critico nei confronti dell’establishment tradizionale, ma probabilmente ha un senso politico più spiccato. Non ha paura di stringere alleanze (altro tabù dei grillini) o di cooptare nel suo partito energie esterne e qualificate per gli incarichi più delicati. Sono differenze che contano e che forse spiegano la triste situazione romana.

 
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