Rieti, l'ultima partita dell'arbitro Cenami:
ora farà crescere i giovani fischietti
"Un'esperienza bellissima"

Francesco Cenami, l'ultimo sorteggio prima di Lazio-Dinamo Kiev alla Scopigno Cup
di Christian Diociaiuti
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Sabato 26 Marzo 2016, 11:16 - Ultimo aggiornamento: 11:33
RIETI – Il fischietto come estensione del corpo. La capacità di decidere come prima facoltà mentale. Fare l’arbitro non è semplice e spesso lo si dimentica, in un ambiente come il calcio che tra movioloni, voti e critiche, riversa spesso la sua bile sui signori vestiti di nero, ma ora anche di giallo, azzurro... Anche loro sono sportivi: lavorano, si allenano, studiano e soprattutto si emozionano. Lo sa bene Francesco Cenami, reatino nato nel 1985, direttore di gara della sezione Aia di Rieti dal 2002. Giovane sì, ma dalla grande esperienza e di grande capacità, che per un motivo o per l’altro (lo spiegherà proprio lui), smetterà i panni del direttore di gara per diventare osservatore e valutare le prestazioni di altri arbitri. Un cambio che lo vede già molto carico e pronto ad una nuova sfida, dopo uno stop dalle direzioni di gara di circa un anno: l’ultima volta ha diretto a maggio i playoff di serie D, l’apice della carriera Interregionale, in Can D.

Cenami venerdì scorso ha arbitrato la sua ultima gara, non senza emozioni. E lo ha fatto con i compagni Alessio Angeletti e Daniele Evangelista della sezione di Rieti. La sua sezione. Di certo non la dimenticherà quella semifinale della 24esima Scopigno Cup tra Lazio e Dinamo Kiev, finita 2-1 per i biancocelesti. Una gara interessante, con decisioni importanti da prendere e altre azioni da valutare con attenzione ma rapidamente. L’ha diretta alla sua maniera, senza sbavature (anche se dalla tribuna qualcuno che mugugna non manca mai, ma si sa il calcio è così) e alla fine con tanta emozione.

In una lunga intervista a Il Messaggero, Francesco Cenami si racconta e racconta il mondo dei direttori di gara. Un mondo che troppo spesso lasciamo fuori che dovremmo avere l’attenzione di conoscere, per essere più istruiti e consapevoli quando vediamo una partita.


L'INTERVISTA


Cenami, ci dica la verità: come è stato arbitrare l’ultima gara?

“È stato bellissimo perché mi sono divertito, ho riprovato le emozioni che ho sempre provato. Ma gli ultimi minuti sono stati duri perché mi veniva da piangere. Lo ammetto: una lacrima quando ho lasciato il campo mi è uscita”.


Perché ultimamente non ha più arbitrato e perché si chiude qui la sua carriera da arbitro?

“Il regolamento dell’Aia ti consente di stare in Can D per tre stagioni. Nell’ultima stagione ho fatto i playoff: eravamo in tre del Lazio ma ne sono stati promossi due e io sono rimasto fuori. Sto facendo il corso per diventare osservatore e cambierò ruolo”.


Come ha iniziato?

“Ho iniziato nel 2002, per scherzo, perché avevo dei problemi di peso e il medico mi obbligò a fare sport. Non sapendo che sport fare mia madre vide il cartello che promuoveva il corso arbitri e quasi mi costrinse a partecipare. Così quasi per scherzo, dopo quindici anni, siamo ancora qui”


Quanti ne ha visti passare di arbitri e quante ne ha viste?

“Tanti e tante. Fare l’arbitro è uno sport un po’ particolare, non è per tutti. C’è molta parte atletica, e da fuori si potrebbe dire che è facile fischiare i falli o meno, però è un discorso di personalità. Molti si perdono per strada anche per quello. E poi non arrivano tutti. Un esempio è il mio: in Italia siamo 33mila, in A sono venti. Tutti non possono arrivare”.


La qualità principale che deve avere un direttore di gara qual è?

“Una sola qualità non c’è, sono più di una. Due sono di base: la personalità e la conoscenza sia del regolamento che del gioco del calcio. Poi dipende dalla persona: il modo di arbitrare non è uguale per tutti. Basti vedere due esempi, Orsato e Rizzoli. Grandi personalità che arbitrano bene entrambi, ma diversamente”.


Si rimprovera qualcosa?

“Si poteva fare meglio. Sono sempre molto critico verso me stesso. Non dirò mai è colpa di tizio o colpa di caio. Potevo fare meglio. Gli altri sono stati più bravi e il mio rammarico è quello di non esser riuscito a dimostrare di esser stato più bravo di loro”.


Come è vivere la vita da arbitro, uno sportivo come gli altri, che se ha diretto in maniera giusta ha fatto il suo dovere ma se l’ha fatto male si prende tutte le colpe?

“Fare l’arbitro è una sportività particolare. Quello che non viene capito da fuori è che comunque è interesse dell’arbitro arbitrare bene. Non c’è un discorso di dietrologia. Io sono contento quando leggo nelle cronache delle partite, che non si parla di me. La nostra mentalità è che siano protagoniste le squadre, sono loro che giocano a calcio. Noi stiamo lì per far applicare il regolamento nel miglior modo possibile. L’errore è fisiologico e umano: come c’è il portiere che fa la papera e l’attaccante che si mangia un gol davanti alla porta, c’è l’arbitro che sbaglia un rigore visto da tutti quanti. È un problema di cultura: fa gioco strumentalizzare qualche errore per nascondere qualche altra mancanza. Ma noi abbiamo le spalle grandi, siamo abituati”.


Spezziamo una lancia sulla buona fede dei direttori di gara…

“Io credo che a qualsiasi livello, tolta qualche mela marcia che sta in qualsiasi ambiente, la buona fede ci sia sempre. Si arriva a certi livelli facendo un percorso. Tutti cominciano dai Giovanissimi e si augurano di arrivare in A. L’insegnamento più grande è che la buona fede ci deve stare sempre e comunque. Strumentalizzare gli errori è facile, ma non ci credo che qualcuno sbagli appositamente”.


Il ricordo più bello e quello più brutto?

“Bello? Ce ne sono tanti. Forse l’emozione più grande ce l’ho avuta in serie D. La partita era Savoia-Palazzolo a Torre Annunziata. Era la prima gara in D del Savoia, neopromosso e c’erano seimila spettatori a vedere la partita. Lì l’uscita dagli spogliatoi è sotto la curva e praticamente io sono entrato in campo trovandomi tutta questa gente sopra, mi tremavano le gambe. Una cosa molto bella. Un ricordo brutto? Risale al 6 gennaio 2007: sono stato vittima di un episodio di violenza, sono finito in ospedale. Non entro nel merito perché la giustizia sportiva ha fatto il suo corso. Lì volevo smettere di fare l’arbitro, sono sincero. Ma nella sua bruttezza è stato qualcosa di formativo, mi ha dato la spinta per ripartire più forte di prima”.


Il suo futuro?

“L’attività arbitrale punterò verso quella dell’osservatore. Quando mi hanno mandato a casa avevo anche pensato di smettere. È stata una botta: la stagione era andata bene e ci credevo. Ma di lascaire un ambiente come la sezione di Rieti in cui sono cresciuto per quasi quindici anni, beh, non me la sentivo, non mi sembrava giusto. Soprattutto per i ragazzi. Con l’Aia di Rieti ho avuto la fortuna di fare esperienze che tante persone e arbitri non hanno mai fatto a Rieti. Per il resto la vita prosegue come sempre: ringraziando il Cielo di questi tempi ho un lavoro (alla Larplast di Madonna del Cuore, ndr). Un lavoro che mi ha consentito di fare la carriera arbitrale: hanno capito che per me era una cosa importante, mi hanno sempre sostenuto. Mi sono tolto delle soddisfazioni che ho esteso anche al lavoro. Questo perché mi hanno permesso i viaggiare, di fare i raduni. Cose che in altri posti di lavoro non sarebbero accaduti. Li ho sempre ringraziati e lo farò sempre”.
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