Venerdì sera da Petrangeli, lunedì applausi a Sinibaldi

Daniele Sinibaldi dopo il successo elettorale
di Fabrizio Colarieti
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Giovedì 16 Giugno 2022, 14:53

RIETI - Ora non resta che attendere la sintesi. Nel centrosinistra reatino amano fare questo. Sia quando vincono, sia quando perdono: “La sintesi”. Sembra il titolo di un film di Nanni Moretti, ma in realtà è un processo del lunedì. Stavolta, tuttavia, l’elaborazione dei dati sarà più complessa.

 
Nonostante i numeri - da tramonto di un’epoca - lascino spazio a poche riletture post voto, potrebbero volerci cinque anni. Ma al di là delle analisi, in questa occasione, forse, sarà il caso di analizzare anche le immagini, in particolare la moviola dei festeggiamenti dell’avversario. Perché a Rieti se c’è un rito che non tramonta mai è quello di applaudire tutti. In molti, amano ostentare ipocrisia. Vanno ovunque a battere le mani, perché, non si sa mai, prima o poi, gli tornerà utile. O l’uno o l’altro. 


E così, venerdì scorso, più di qualcuno, era ad applaudire l’ultimo comizio di Simone Petrangeli e lunedì al primo del neo sindaco Sinibaldi. Da che parte della trincea combattevano costoro? La risposta, semmai, andrà fornita a Petrangeli. La lealtà, ormai, è questione troppo nobile per essere ricercata tra le fila dei movimenti politici moderni. Ma nell’era degli smartphone alzati al cielo (con il braccio adeguato al luogo), delle dirette Facebook e Instagram, è fortemente raccomandato l’uso della mascherina. Così, giusto per non farsi riconoscere, oltre che per proteggersi dal Covid. Il resto della cronaca mostra le scarpe rotte dell’ex sindaco tornato dal freddo che ha macinato chilometri a cercare voti, a riconoscere errori (altra dote sconosciuta ai più) e a tenere insieme una coalizione che insieme non è mai stata, se non dentro la scheda elettorale. 


Nella solitudine di Simone Petrangeli - reo di aver chiesto a se stesso e alla sua città una seconda opportunità - andrebbe riletta, poi, una frase che in questi due mesi è stata più volte ripetuta rievocando il sacrificio del giudice Giovanni Falcone: «Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».

Ora il cerchio dei rancori, delle liti intestine, del passato che non è mai passato, si è chiuso. Ci sono voluti dieci anni e due campagne elettorali. Come hanno fatto a chiuderlo? Sostenendo a chiacchiere un politico coraggioso, ma solo per fargli pagare il prezzo più alto. Il conto è regolato. Ma ora è anche più chiaro chi della lealtà ha fatto una stella polare e chi, invece, una palettina da spostare da una piazza all’altra, sperando di non essere riconosciuto. 


Dopo aver applaudito Petrangeli e Sinibaldi e sottovalutato l’altrettanto coraggioso Carlo Ubertini - che con stile ed eleganza ha valuto misurarsi in questa carneficina - arriva il processo del martedì, quello dei se, dei ma e della eco delle mezze parole pronunciate ai gazebo delle primarie. E in tal senso resta di impressionante attualità quanto disse, anni fa, Corrado Guzzanti: «Il Pd è il primo partito in Italia a usare le primarie; il primo partito al mondo che le perde». Esiste, infine, un’altra categoria, quella degli “analisti” collegati dai divani, secondo cui Petrangeli, come Zelensky, doveva arrendersi. Del resto lo avevano avvertito. Tutto quello che è piovuto dopo ha a che fare con la caccia al cinghiale: si pratica a squadre, ma capita che a spararti sia un tuo compagno. 

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