Lezione d’Oltretevere/ Non confondere giustizia con buonismo

di Carlo Nordio
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Sabato 21 Novembre 2015, 01:04 - Ultimo aggiornamento: 4 Novembre, 00:05
La reazione severa e immediata della Santa Sede alla divulgazione illegale di notizie segrete si inserisce, e ne siamo lieti, nella migliore tradizione penitenziale della Chiesa: la quale non concede gratuitamente il perdono, ma lo subordina alle condizioni canoniche della confessione, della espiazione e del fermo proposito redentivo. Questo dovrebbe esser di avvertimento a quanti, buonisti interessati, vedono il Cristianesimo come un’incondizionata paternità indulgenziale.

Al di là di questo, la procedura che ha condotto all’arresto dei due collaboratori infedeli ci sollecita ad alcune considerazioni, costituenti, tanto per restare nel lessico liturgico, un monito salutare. La prima. La signora Chaouqui, incriminata di un reato che il Vaticano considera, e a ragione, molto grave, è stata liberata subito dopo aver manifestato l’intenzione di collaborare. Quando questo accade in Italia, si scatena in genere un’ondata di indignazione, e si accusa la magistratura di usare le manette per costringere alla confessione e alla delazione. Noi magistrati rispondiamo, in genere, che l’arresto è un caso che riguarda persone socialmente pericolose, e come tale va isolato.



Ma quando c’è la decisione di dissociarsi viene meno la pericolosità ,e quindi anche l’esigenza cautelare. È consolante vedere che anche la Chiesa, maestra di vita e carità, ha seguito lo stesso criterio. Speriamo che ciò sia un suggello definitivo alla correttezza - con le dovute eccezioni - anche della magistratura italiana.

La seconda. Nell’imminenza della pubblicazione dei libri contenenti le rivelazioni illegali, la Santa Sede ha voluto colpire subito e per primi i responsabili della fuga di notizie. Questo atteggiamento è saggio e significativo. Orbene, noi da anni ci battiamo perché la porcheria delle divulgazioni delle intercettazioni venga severamente repressa. Ma con altrettanta energia predichiamo, inutilmente, che la soluzione non risiede nel punire il giornalista, che fa il suo dovere, ma il depositario infedele - magistrato, cancelliere, avvocato o altro - che ha passato callidamente al cronista la velina. Ora pare che il Parlamento stia affrontando la questione. Impari dal Vaticano e curi il cancro alla fonte.

La terza. Nel caso odierno, l’unanime e giusta reazione di sdegno è stata indirizzata ai responsabili del grave reato. Nessuno si è sognato di prendere le loro difese sostenendo che i fedeli hanno comunque diritto di sapere cosa si decida tra le mura leonine, come la pensi il Papa, e cosa di lui pensino i Cardinali. Nessuno ha invocato il diritto di cronaca, né la trasparenza né la completezza informativa. Ed è giusto che sia così, perché tutte le persone, dal Sommo Pontefice al più umile mendicante hanno un sacrosanto diritto alla riservatezza. Peccato che da noi accada esattamente l’opposto. Quando sono stati intercettati, più o meno legalmente, capi di stato, ministri e privati cittadini, e quando sono state diffuse, quasi sempre illegalmente, le loro chiacchierate intime e ininfluenti alle indagini, nessuno ha gridato allo scandalo. Eppure ce ne sarebbe stato buon motivo, anche giuridico, visto che l’art 15 della Costituzione protegge come inviolabile la segretezza delle nostre conversazioni. No, qui da noi il coro è stato quasi unanime: poco importa che una mano criminale abbia allungate delle veline riservate, e magari alterate: noi abbiamo il diritto di sapere. Così molte reputazioni sono state distrutte e, guarda caso, molte poltrone sono state liberate. Forse il prudente atteggiamento odierno deriva dal rispetto verso S.Pietro. O forse dal fatto che il suo seggio non è in gioco, e comunque è inaccessibile.