Vaticano, il problema principale sono le lobby

di Francesco Ruffini
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Sabato 3 Ottobre 2015, 23:44 - Ultimo aggiornamento: 4 Ottobre, 00:04
Almeno una bugia Krzysztof Charamsa, il prelato che ha rivelato di essere gay e di avere un compagno, l’ha detta. Ha descritto la “Congregazione per la dottrina della fede”, organismo vaticano dove per diciassette anni ha fatto comoda e ben retribuita carriera, come un ambiente ferocemente omofobo. In realtà, visitando i corridoi e i chiostri del palazzo dell’ex Sant’Ufficio, e quelli di altre prestigiose istituzioni ecclesiastiche, si ha l’impressione di stare nella piazzetta newyorkese di Christopher Street, il distretto gay del Village. Ma, come espresso da Papa Francesco nella sua prima conferenza stampa volante, al ritorno dal viaggio a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù del 2013, il problema non sono i preti gay, sono le lobby. E qui si inserisce la vera novità dell’outing annunciato dal prete polacco.



Papa Ratzinger, che da prefetto della Dottrina della Fede aveva letto numerosi dossier, aveva provato con gentile determinazione a far abbassare la testa a molti esponenti della lobby gay vaticana non ricevendo però, nemmeno in questa occasione, aiuto da parte dei suoi collaboratori. All’arrivo di Papa Francesco poi si sperava che, tralasciando per un istante il pastorale, egli prendesse in mano quella scopa che i cardinali che lo avevano eletto indicavano come necessario corredo all’azione del futuro pontefice. A oggi, la lobby gay è più viva che mai e sta esprimendo personaggi anche apicali del sistema papale. Inutile nascondersi, rilevanti personaggi vaticani nel loro modo di vivere e di agire sono “sostenuti” da una rete di complicità che sfida ogni controllo.

Anzi, sono talmente sostenuti da essere capaci di condannare alla damnatio memoriae chiunque osi raccontare, anche marginalmente, ciò che fanno o dicono. E non è difficile supporre che l’ardito monsignor Krzysztof sia l’avanguardia di un “qualcosa” che nell’imminente Sinodo voglia far sentire il peso della propria presenza in un’assise che, dopo l’edizione dello scorso anno volutamente “consultiva”, Papa Francesco ha già affermato voler considerare “deliberativa”: ciò che i vescovi riuniti a Roma decideranno, nel bene e nel male, sarà dal Papa reso operativo. E il pistolotto del prelato polacco in favore della “famiglia” e del matrimonio, anche omosessuale, dei preti si rivela un escamotage dialettico solo di facciata in quanto Papa Francesco ha revocato l’interdetto che proibiva ai preti cattolici sposati, appartenenti agli altri undici riti della comunione cattolica, di risiedere nei territori dei riti romano e ambrosiano con sacerdoti celibi.

Tra pochi anni, anche Roma vedrà preti romeni, ucraini o libanesi oppure etiopi ed eritrei, o indiani, vivere nelle loro parrocchie con moglie e figli. Nelle diocesi di rito orientale del Sud Italia, la Chiesa trova con difficoltà candidati all’episcopato (i vescovi devono essere celibi) perché i sacerdoti hanno scelto tutti di avere famiglia e nel mondo cattolico migliaia di preti, giunti da altre confessioni cristiane, svolgono il loro servizio ministeriale anche se coniugati.

Una delle grandi intuizioni di Benedetto XVI è stata proprio quella di introdurre in modo “naturale” l’ordinazione di uomini sposati con una grande apertura a “talenti” che la storia (forse pure la Provvidenza) sta regalando ad un cattolicesimo che nella città eterna si sta trasformando in una caricatura. Non per nulla una notizia di pochi giorni fa ci svela un vescovo molto mediatizzato che, a causa di uno scherzo radiofonico, ci introduce nella dimensione plastica di cosa significhi essere “un carrierista in tonaca” a Roma. Forse anche qualche cardinale che si considera più teologo del Papa, il “teologo” per eccellenza, dovrebbe fare attenzione. Perché, questo sinodo è l’ultimo appello anche per la curia di Roma.