La grande occasione/ Il voto a Roma, un referendum sulle Olimpiadi

di Virman Cusenza
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Giovedì 9 Giugno 2016, 01:10 - Ultimo aggiornamento: 17:29
Ben più che un ballottaggio. Roma sta per affrontare un passaggio cruciale della sua storia. In ballo non c’è solo l’ardua scelta del prossimo sindaco ma uno spartiacque sulla visione che si ha o si vuole avere della Capitale. Tra la rassegnazione al declino e il rilancio di un prestigio e di una grandezza che ormai da troppi anni sono alle spalle. Tutto questo è incarnato, per chi non se ne fosse accorto, in un solo tema che li racchiude tutti: la scelta sulla candidatura ai Giochi del 2024. In fin dei conti, il voto che ci attende fra una decina di giorni è apertamente una sorta di solenne referendum sulle Olimpiadi. Una scelta in cui contano poco le sfumature, ma soltanto i sì o i no. La condivisione di un modello o il suo rifiuto con connesso salto nel buio. Vediamo perché. Innanzi tutto c’è da riflettere su un aspetto a dir poco paradossale. Da mesi si dibatte, addirittura con toni violenti e affondi degni di miglior causa, non su un fatto ma sulla possibilità che avvenga. Ovvero, Roma si è semplicemente quanto ufficialmente candidata a ospitare i Giochi. Dovrà vedersela con città rivali del calibro di Parigi e Los Angeles. Eppure questo già basta a scatenare il sempreverde fronte del no, con una campagna che a tratti ha del grottesco oltre che della pura falsificazione. Il primo errore è quello di separare il piano della necessità da quello della grandezza.

La dicotomia ordinario-straordinario su cui si basa la propaganda anti-Olimpiadi (facciamo prima le cose necessarie) non considera che invece per mettere mano ai suoi drammi minuti Roma deve pensare in grande. Che cosa significa? Semplice. Basta scorrere qualche cifra. I potenziali 177 mila nuovi posti di lavoro (la rivale Parigi ne stima fino a 247 mila), 867 milioni di euro di entrate fiscali nette, una crescita del Pil dello 0,4 per cento. Per non dire dell’impennata delle presenze turistiche. A fronte di questo, fugando la regina delle obiezioni, nessun onere per le casse del Campidoglio già ampiamente provate dal dissesto ininterrotto degli ultimi decenni. E allora perché dire no, se questa candidatura diventa palesemente la spinta alla consapevolezza di un ritrovato ruolo nazionale e internazionale, anzi un concentrato di anticorpi al declinismo che ha infettato la nostra città? Altra mistificazione da spazzar via. Da quando il Comitato olimpico internazionale ha abbandonato la formula affetta da gigantismo che avrebbe tagliato fuori molte capitali, Roma è tornata papabile.

Per le stesse ragioni che nell’ormai lontano 1960 la resero protagonista di un successo. Le opere infrastrutturali di cui ancora oggi godiamo non a caso portano l’aggettivo olimpico: vale per l’anello viario dentro il raccordo, per l’omonimo villaggio dove oggi sorge l’Auditorium (solitaria eccezione nell’ultimo mezzo secolo) nonché per il sottopasso di Muro Torto che ha consentito di congiungere pezzi di città allora separate, solo per fare qualche esempio. Quell’eredità è ancora preziosa ma vetusta. E non c’è romano che oggi, al pari di tanti altri impietosi raffronti, non paragoni quelle opere al nulla che ne è seguito. Dunque investimenti, infrastrutture e rilancio. Con due punti fermi: il 70 per cento degli impianti che verrebbero usati per le gare sono già esistenti. Con l’aggiunta di un nuovo palazzetto dello sport, di un nuovo campus, un parco naturalistico per le gare d’acqua e una cosiddetta grande area-bicicletta impreziosita da un velodromo. Il resto delle infrastrutture (dalle strade al prolungamento della metro, all’anello ferroviario e alla ristrutturazione di Fiumicino) sono già pianificate e in certi casi già finanziate dallo Stato. Insomma, le Olimpiadi diventerebbero un semplice acceleratore. Una strada maestra per avere dei vantaggi aggiuntivi con tempi certi e soprattutto la sicurezza di rispettare un traguardo entro una data. Miracolo al quale, non solo a Roma, non siamo abituati ad assistere.

Perché non farne il grande target del prossimo decennio, ovvero una scossa contro la palude di cui ci si duole quotidianamente? Un’occasione per ripartire e per le giovani generazioni. Nel 2024 gareggeranno anche atleti che oggi hanno dieci anni. Se Roma, con i giganteschi mali di cui soffre, non accetta nemmeno la sfida olimpica, abbassa una saracinesca tombale. I grandi eventi qui hanno sempre ridisegnato in meglio la città. Bisogna indietreggiare di un secolo e scivolare al 1911: Esposizione universale per i 50 anni dell’Unità d’Italia. Ecco un piccolo campionario che ancora oggi ammiriamo: il complesso principale che oggi ospita la Galleria nazionale di arte moderna, attorniato dai padiglioni dei vari Paesi, che oggi costituiscono una delle vie più belle di Roma, e l’Altare della Patria, la passeggiata archeologica, il restauro delle Terme di Diocleziano, il giardino zoologico, l’ippodromo. Può bastare? Stavolta non si tratta di realizzare opere faraoniche ma di curare la città, migliorandone la (pessima) vivibilità. Qualche altro slogan da smontare. Si parla tanto in questi giorni di periferie e della loro separatezza dal centro. Roma 2024 è impostata sul concetto di città diffusa: l’intera Capitale viene coinvolta con nuove realizzazioni per gli atleti, il centro o l’area attorno allo stadio Olimpico ne sono solo una piccola e non strategica parte. Sembra già di sentire il solito ritornello disfattista: ogni grande evento vuol dire corruzione. Falso. Basta spiegare ai cittadini quanto e come si spende. Smettere di far credere che si realizzano opere fine a se stesse.

Ogni parte va progettata pensando all’uso successivo, al beneficio che resta alla città. In fin dei conti, due campioni olimpici come Livio Berruti o Nino Benvenuti non hanno continuato a vivere da romani in un contesto arricchito e migliorato proprio per quel lontano evento che li vide con onore alla ribalta ben 56 anni fa? Sentiamo sulla nostra pelle la ferita di Mafia Capitale e dei poteri marci che hanno saccheggiato e declassato Roma. Siamo perciò consapevoli di quanto sia necessario migliorare anche la reputazione complessiva della città. Prendiamo per esempio il recentissimo laboratorio Expo, realizzato in extremis e con un raro lavoro di squadra (a proposito di corruzione, lì non ha vigilato efficacemente l’Anac di Cantone?). Non c’è nessuno oggi che non riconosca, anche numeri alla mano, quanto Milano se ne sia giovata risalendo una china che, per le inchieste e il declino degli ultimi vent’anni, sembrava interminabile. E’ stato possibile il cambio di ritmo della città. Expo ha portato una nuova visione del mondo, ha sprovincializzato Milano rendendola ancora più europea, ha funzionato da enorme collettore di energie positive: istituzioni pubbliche e private che non erano abituate a muoversi insieme l’hanno fatto.

Varrebbe la pena di ricordarlo ai Masanielli alla Salvini, che fanno dichiarazioni di voto proprio per quel fronte anti-Giochi che poi non è altro che il fronte anti-Roma.
Necessità e grandezza possono, anzi devono, andare a braccetto. Nella sua Epistola ai romani, Voltaire scriveva nel 1768: «Romani, rompete le vostre catene». Ossia pensate in grande. Qui non si gioca una partita municipale. Non è in ballo la necessaria quanto ordinaria amministrazione del riparare le buche o nettare le strade dai rifiuti, condizione preliminare ma non sufficiente per sentirsi non dico orgogliosi, ma a proprio agio nella propria città. Qui si gioca la partita Capitale a cui il resto del Paese non può assistere distratto a guardare da un’altra parte. Scriveva a fine Ottocento uno statista come Bettino Ricasoli al patriota Luigi Torelli che «l’Italia senza Roma è un corpo morto». E intendeva senza il prestigio di Roma. Ecco il senso del referendum che ci attende.
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