La geografia del voto, quanto pesano la protesta e l’indifferenza

di Alessandro Campi
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Lunedì 6 Giugno 2016, 00:47 - Ultimo aggiornamento: 03:08
Chiuse le urne, l’unico dato certo è quello relativo all’affluenza: hanno votato il 65% degli aventi diritto. Sempre pochi rispetto al passato, ma poteva andare decisamente peggio. Si temeva, nei giorni scorsi, che si potesse scendere sotto il 50%. Stavolta si è votato in una giornata unica. Difficile dunque fare un confronto con quando si poteva votare anche il lunedì mattina. L’impressione è che la fuga in massa dal voto, per disgusto delusione o rabbia, sia stata parzialmente arrestata, anche se il vento dell’antipolitica continua a soffiare forte in tutto il Paese. 

Meno certi e affidabili sono invece i dati degli exit poll. Ma se gli elettori hanno detto il vero a chi li intervistava all’uscita dai seggi, chiedendo loro di ripetere il voto espresso in cabina, sembrerebbero confermate molte delle previsioni della vigilia. Almeno nelle grandi piazze non ci sono state sorprese. Essendo ormai il nostro un sistema partitico tendenzialmente tripolare, nessun sindaco vince al primo turno. A Roma accedono al ballottaggio la candidata del M5S, Virginia Raggi, e probabilmente quello del centrosinistra, Roberto Giachetti.

Il che, in ogni caso, conferma quanto miope sia stata la scelta del centrodestra di dividersi per potersi contare al suo interno in vista della futura battaglia per l’egemonia e la leadership. Il risultato, se le proiezioni saranno confermate dal voto finale, sarà di avere Meloni e Marchini entrambi fuori dalla partita per il Campidoglio, pur avendo insieme voti sufficienti per accedere tranquillamente al ballottaggio e per poter persino sperare di conquistare il Campidoglio.

Anche a Milano è andata secondo le previsioni. Il ballottaggio sarà tra Giuseppe Sala (centrosinistra) e Stefano Parisi (centrodestra): con il primo in vantaggio sul secondo di pochi punti. Berlusconi avrà un bel dire, a questo punto, che il centrodestra è competitivo solo se unito e solo se a trazione moderata. E, va da sé, solo se è lui a guidarlo e indirizzarlo. Ma si tratta di una soddisfazione magra e prematura. Primo, bisognerà vincere al secondo turno. Secondo, la crisi, strutturale e profonda, del centrodestra a livello nazionale difficilmente potrà essere risolta da un’eventuale affermazione di Parisi. Che forse servirà a dare ossigeno ad un Berlusconi che da almeno un anno e mezzo annaspa. Ma certo non a far ripartire un’area politica che non sembra avere più idee e proposte da offrire ai suoi elettori, dal momento che molte di quelle un tempo buone e vincenti nel frattempo le ha fatte proprie Matteo Renzi.

A Torino la contesa finale sarà tra Pd (Fassino) e grillini (Appendino), ma colpisce la vicinanza, non prevista nei sondaggi della vigilia, tra i due contendenti. È il segno che il M5S, quando trova candidati normali e rassicuranti, è ormai una realtà competitiva anche a livello amministrativo (come anche dimostra, tra gli altri, l’ottimo risultato di Savona). Anche a Torino il centrodestra s’è presentato spaccato, ma in questo caso non solo è rimasto fuori dal ballottaggio, ma ha complessivamente ottenuto un risultato miserevole.

A Napoli, infine, non si è avuta la vittoria al primo turno di De Magistris che qualcuno aveva previsto. Al ballottaggio, forte comunque di un 42% circa di voti, l’ex magistrato se la vedrà con Lettieri (candidato unitario del centrodestra) o con la Valente (Pd), divisi anche loro da una percentuale minima. Colpisce, nel caso napoletano, come a spiazzare i partiti tradizionali sia stato un capopopolo che sembra volersi proporre come leader nazionale di un nuovo movimento di opposizione antisistemico, come se già non bastassero quelli che abbiamo. 

La battaglia a questo punto si sposta sul secondo turno. Se Milano è l’ultima sponda rimasta al centrodestra per evitare un risultato complessivamente disastroso, Roma per i grillini diventa il tornante decisivo per capire se possono essere considerati una forza credibile di governo o se sono condannati ad un’eterna opposizione. Me nei prossimi quindici giorni si prenderanno decisioni che potranno avere interessanti riflessi sul futuro politico nazionale. Il caso di scuola è Roma. Il candidato scelto da Berlusconi – dopo troppi ripensamenti e ritardi – ha ottenuto un risultato inferiore alle aspettative. Ma il suo pacchetto di voti, comunque cospicuo e prezioso, a chi andrà al ballottaggio? Se ci sarà una chiara indicazione di voto a favore del centrosinistra, con l’obiettivo di sbarrare la strada alla candidata grillina, questa scelta potrà essere vista come fioriera di un rinnovato (e da molti auspicato”) “Patto del Nazareno”? Così come sarà interessante capire che scelta faranno, sempre a Roma, Salvini e la Meloni nel caso quest’ultima, anche se per poco, non dovesse andare al ballottaggio. Daranno la libera uscita ai propri elettori o sceglieranno, in polemica diretta con Berlusconi, di convergere apertamente sulla Raggi? In questo caso le strade della destra moderata e di quella populista si divideranno per sempre?

Resta, detto tutto ciò, una grande difficoltà a trarre indicazioni politiche generali dal voto amministrativo di ieri. Il dato saliente di quest’appuntamento elettorale è stato infatti rappresentato dalla frammentazione dei simboli e delle candidature nei diversi contesti territoriali. È la prova che i partiti tradizionali, delegittimati agli occhi dei cittadini e in crisi anche dal punto di vista finanziario ed organizzativo, hanno perso la loro capacità di radicamento e mobilitazione, al punto da non riuscire, in molti casi, nemmeno a presentare delle loro liste autonome. Con tutte le liste civiche in competizione, quasi quattromila, è davvero difficile misurare la forza politica effettiva dei partiti cosiddetti nazionali. Ma visto come è andata laddove hanno presentato i loro simboli forse è meglio così.
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