Olimpiadi, Narcis Serra: «Barcellona grazie ai giochi ridette dignità alle periferie»

Narcis Serra
di Paola Del Vecchio
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Venerdì 10 Giugno 2016, 09:34
MADRID «I Giochi Olimpici non furono solo un modello di eccellenza sportiva: ci permisero di realizzare il sogno della Barcellona che volevamo come città, di situarla nel mondo. Fu possibile solo con il coinvolgimento unanime, delle amministrazioni, della cittadinanza, del mondo imprenditoriale. La dead-line al 1992, forzò molti accordi, bruciammo le tappe, perché dovevamo essere pronti a qualunque costo».

Narcis Serra, politico di lungo corso, già ministro del governo provvisorio della Catalogna, è stato il sindaco di Barcellona nelle prime elezioni municipali della democrazia, nel 1979. L'uomo che, in un momento molto difficile per la Spagna, dopo il tentato golpe del 23 febbraio 1981, ebbe l'idea giusta al momento opportuno: proporre la candidatura della città a sede dei Giochi Olimpici. «Approfittammo dell'occasione per dire: c'è la luce dopo il tunnel», ricorda.

«La storia di Barcellona è uno degli ingredienti del successo, l'aver accumulato capitale umano capace di dare impulso e completare il rinascimento della città», assicura Serra. E aggiunge: «Auguro a Roma di ospitare i Giochi, occasione che i suoi governanti non dovranno lasciarsi scappare».
 
Immaginò allora l'entusiasmo che avrebbe suscitato il progetto?
«L'idea risale alla metà degli anni '80. Ne parlai con Juan Antonio Samaranch, allora ambasciatore e candidato alla presidenza del Comitato Olimpico Internazionale. Restammo che, se fosse stato eletto, avremmo presentato la candidatura. Poi, nel febbraio '81 ci fu il tentato colpo di Stato. A maggio, il re Juan Carlos venne in città per presiedere la giornata delle Forze Armate, una settimana dopo l'assalto alla Banca centrale di Spagna. Il clima era tremendo. Approfittando della visita del monarca, chiesi ufficialmente di lasciarci presentare la candidatura. Eravamo sicuri che, per l'appuntamento olimpico, la democrazia si sarebbe consolidata. E funzionò».

Dal sogno alla realtà, quali furono le chiavi perché le Olimpiadi fossero il volano della trasformazione urbanistica, che ebbe un altissimo impatto economico e sociale?
«Fu l'occasione per realizzare l'idea che avevamo di liberare la città dalla muraglia, che fino al 1853 l'aveva separata dalla sua baia, di aprirla al mare. Dovevamo dotarla di un anello, per favorire il traffico pedonale e perché la viabilità fosse più umana. Progetti rimasti paralizzati durante i 40 anni di dittatura. Giustificammo il ring di cui aveva bisogno Barcellona con le installazioni degli impianti olimpici: su una parte costruimmo la Villa Olimpica. Ristrutturammo il vecchio stadio di Montjuic, migliorammo a rete delle infrastrutture. Portammo le installazioni olimpiche in zone che erano stati quartieri-dormitorio nell'epoca franchista. L'obiettivo non fu migliorare il centro, ma dare dignità alle periferie. L'apertura della città al mondo non è stata in beneficio di pochi».

Anche il modello pubblico-privato, con investimenti stimati in circa 10 milioni di euro, prevalentemente pubblici ma a gestione privata, era fino ad allora del tutto inedito.
«Chiaro. Con Franco non si poteva dialogare, perché non solo erano vietati i sindacati, ma anche le unioni dei patronati degli imprenditori. Nel 1981 già lavoravamo ad accordi pubblico-privato, per preparare il dossier dei Giochi: l'ingranaggio partì subito. Tutti gli edifici del distretto centrale dell'Ensache, l'Eixample che ha un tracciato molto reticolare, cartesiano, quando furono abbattute le mura erano grigi, perché Barcellona era una città oscura, decadente. Proponemmo ai proprietari di ogni edificio di riattarli, scontando le imposte urbane, e in migliaia risposero, regalando un'altra luminosità alla città. Anche questo è un esempio, modesto ma più esteso, di collaborazione pubblico-privata. Per i Giochi si mobilitarono decine di migliaia di volontari più dei 45.000 che servivano per l'organizzazione. Lo sforzo fu unanime».