I perché della scelta/ Tra furbizie e futuro la fuga di Milano dalle urne lumbard

di Mario Ajello
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Martedì 24 Ottobre 2017, 00:05
Milano ha bisogno di muoversi senza i vincoli del localismo o i riti padanisti del secolo scorso. 

E di procedere con quella malcelata furbizia, molto meneghina, che la tiene legata a Roma perché molti dei successi milanesi(l’Expo è solo un esempio) derivano dal sostegno della Capitale. Dunque poteva votare, e votare Sì, una città di questo tipo? No. 

E infatti, Milano - in totale controtendenza rispetto al Veneto ma anche un po’ rispetto al resto della Lombardia - si vanta di aver avuto il 78 per cento degli elettori che hanno disertato le urne referendarie. C’è chi si pavoneggia per questo record, dicendo: Milàn l’è semper on gran Milàn. Ma queste sono espressioni provincialotte. Il nocciolo della questione è quello così riassunto dal sociologo Aldo Bonomi, il quale meglio di tutti conosce i diversi territori del Nord: “Milano, per composizione sociale, è in preda a una grande voglia di mangiare il futuro. E l’autonomismo non ha nulla di avveniristico. Milano guarda all’Europa ed essendo una città-snodo gli serve tutto, anche un saldo rapporto con Roma, per esprimersi al meglio. Ma allo stesso tempo non può infischiarsi della Lombardia, cioè del suo contado”. Il grande storico Fernand Braudel diceva infatti che “non c’è città ricca senza campagna florida”. E questa è una citazione che piace molto a Bonomi. Insomma è essenziale il rapporto con Roma, così come la dimensione europea e internazionale, ma anche la non estraneità di Milano dal proprio contesto regionale e macro-regionale (Lombardia e Piemonte sono sempre più cosa sola). 

Sarebbe perciò troppo semplice, alla luce di questi dati referendari, dire che Milano se ne infischia della Lombardia e magari pure del Veneto. Perché così non può essere. Di sicuro - e la riprova sta nel fatto che fu l’unica grande città in cui il Sì vinse sul No nel referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre - Milano ha estremo bisogno di un rapporto nuovo con uno Stato centrale che tenta di rimodernarsi e da cui deriva molto della sua sorte. Sarebbe stato un suicidio, per una città che si è sempre vantata di prediligere il metodo riformista, come dimostra la sua storia da Turati in poi, pur con qualche parentesi, farsi prendere dal raptus dello strappo che oltre tutto risulterebbe in contraddizione anche con il razionalismo, di cui è stata culla dai tempi dell’illuminismo con i fratelli Verri e Beccaria all’Ottocento di Manzoni e via dicendo. Il pragmatismo e il savoir faire impongono a Milano, anche a dispetto di qualche spirito animale di presunta superiorità inesistente, di interloquire con i vertici istituzionali dello Stato centrale, in una modalità di estremo equilibrio che è quella che può giovare agli interessi produttivi di questa città, come sanno bene gli imprenditori e i professionisti che vi operano. Contrapporsi a Roma, mentre Roma è decisiva per molte partite milanesi, e proprio in queste settimane per la sfida di portare nella capitale lombarda l’agenzia europea del farmaco, non sarebbe stato nell’interesse di questa metropoli. 

Un mix di furbizia e senso di opportunità sono gli ingredienti molto local che spiegano, non da soli, l’andamento di questo voto referendario. Che poi, come sostiene Piero Bassetti, primo presidente della Regione Lombardia, e spirito liberale doc, affonda le sue motivazioni anche sul terreno storico contemporaneo. “Procede sempre più veloce, anche se i leghisti non lo capiscono”, spiega Bassetti, “la perdita di funzione del territorio limitato. E Milano ha la piena consapevolezza di questo processo in atto. Di tutto ha bisogno tranne che di isolarsi. E poi non esiste più la polemica con Roma”. 

Addirittura il sindaco Sala, pur di non votare, è rimasto a Parigi scatenando la rabbia di Maroni: “Poteva fare uno sforzo, non stava dall’altra parte del mondo”. Ma Milano che insiste sul fare sistema, ossia sull’opposto del revanscismo identitario, non può che cercare di guardare avanti, pur con le contraddizioni che si porta appresso (ma quale capitale morale!). E non poteva votare per il Sì perché il referendum autonomista contiene un’idea superata del Nord (noi virtuosi, gli altri spreconi) che rischia di inibire e non di promuovere la crescita e la creatività, che hanno bisogno di un respiro nazionale per competere davvero a livello internazionale. Non è un caso che gli industriali milanesi, al contrario della Confindustria veneta, abbiano per lo più snobbato questa consultazione. 

L’economista Salvatore Bragantini fa una diagnosi perfetta: “Qui a Milano c’è la netta convinzione, nelle forze produttive e culturali, che le zone più ricche devono interagire con le altre parti d’Italia. E non per un banale senso di solidarietà o di altruismo. Ma per la consapevolezza che Milano, esattamente come Roma, non può neppure minimamente concepire l’esistenza delle piccole patrie. Che non aiutano uno, ma rischiano di affossare tutti. Milano ha bisogno di Roma, e viceversa”. 

E così, sotto la Madonnina, non è andata in scena la pagliacciata.
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