Uso scorretto della parola populismo

di Marco Gervasoni
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Sabato 12 Novembre 2016, 00:05
I sondaggi non possiamo abolirli, anche perché producono reddito, e di questi tempi su ciò è meglio scherzare poco. Ma almeno, per capire la politica attuale, liberiamoci delle etichette che, a furia di essere incollate ovunque, smettono non solo la loro utilità, ma diventano persino fuorvianti. Una di queste è «populismo», un concetto sul cui significato gli stessi studiosi sono ancora divisi, nonostante il tema occupi interi scaffali di biblioteca. Populista Trump, ovviamente, populisti i brexiters, tutti spinti da un’«onda nera» (altra metafora frusta), un magma pronto a spazzarci via.

Come il termine «fascismo» negli anni Sessanta e Settanta veniva utilizzato per classificare chiunque fosse avversario della sinistra, oggi l’espressione «populista» è diventata passe partout, buona a inglobare le proposte aliene rispetto all’esangue politica mainstream. Così ecco i «populisti di destra», Le Pen, Hofer, Farage, Petry, però anche quelli di «sinistra», e pure i 5 stelle lo sono, ma non si sa bene quale aggettivo appioppare loro. Oltre a far calare su un panorama complesso e in movimento la classica notte in cui, diceva Hegel, tutte le mucche sono bigie, questa parola si è trasformata in uno stigma demonizzante.

E negli Stati Uniti si è avuta l’ennesima dimostrazione che il modo migliore per far crescere in consensi l’avversario è dipingerlo come il diavolo. Considerare Trump «populista» allo stessa stregua, ad esempio, di una Le Pen, è infatti molto discutibile. Come ha sostenuto Virman Cusenza su queste colonne, nel neo presidente c’è un forte elemento pragmatico ed extra ideologico, discendente pure dalla sua estraneità alla politica di professione; un imprenditore lontano anni luce dal profilo biografico della leader del Fn, erede invece di una precisa, e plurisecolare, tradizione politica, sia pure rinnovata. Inoltre il disprezzo con cui è pronunciato il termine populista si accompagna ormai ad una sempre più malcelata idiosincrasia nei confronti del suffragio universale, sentimento abbastanza paradossale in figure vicine a partiti recanti «democratico» persino nel nome.

Molti non vedono che l’avvento del populismo, ha scritto Luigi Zingales sul «Sole 24 ore», è semplicemente quello della democrazia. Se è necessaria una moratoria sulla parola «populismo», in che modo definire questi movimenti, molto diversi tra loro, ma con fili conduttori comuni? Risposta complessa: ma chiamarli «nazionalisti», per esempio, sarebbe più corretto. Il nazionalismo, nato dalla Rivoluzione francese, è infatti un insieme di ideali, molti nobilissimi, per i quali in questi due secoli si sono mobilitate intere masse e che evidentemente sono ancora vivi. Solo l’illusione un po’ tecnocratica e un po’ illuministica degli ultimi decenni ha potuto far credere che liberarsi dello Stato nazione fosse un’ottima idea, mentre ora lo rivendicano tutti, da Trump a Sanders. Una lezione per la sinistra mondiale, che, a caldo, a giudicare dalle reazioni tra l’isterico e il disperato alle elezioni Usa, non sembra però ancora avere metabolizzato.

Fa sorridere infatti, nel leggere l’intervento del saggista inglese Timothy Garton Ash su «Repubblica», apprendere che Putin è «fascista», lo è Erdogan e che Trump «un essere disgustoso sotto il profilo morale» segue la scia di una «internazionale nera», destinata comunque a essere sconfitta perché «noi» siamo migliori. Se queste sono le basi analitiche, Trump può serenamente prepararsi al suo secondo mandato e Grillo (o chi per lui) a diventare premier.

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