Lo strappo di Berna e lo scontro Atene-Berlino

di Giulio Sapelli
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Venerdì 16 Gennaio 2015, 22:36 - Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 00:12
L’abolizione del tetto al cambio tra franco svizzero ed euro ha colpito la finanza internazionale come una frustata, provocando sconcerto e preoccupazione. Di là degli aspetti tecnici, merita cogliere il senso politico della questione.



La signora Christine Lagarde, presidente del Fmi non ne era stata informata e ha espresso tutti i suoi dubbi sull’utilità di una misura che ha un solo significato economico: prevenire la svalutazione dell’euro che seguirà all’avvio degli acquisti di titoli sovrani da parte della Bce che dovrebbe alleggerire i portafogli delle banche e, nel dotarle di nuova liquidità, riattivare i canali di finanziamento diretti alle famiglie e alle imprese con operazioni che molti giudicano rischiose perché più orientate alla speculazione piuttosto che agli investimenti produttivi.



Ma il senso ultimo della decisione della Banca centrale elvetica sta nella profonda sfiducia che quell’economia, solida e arroccata su fondamentali fortissimi, ha reso manifesta nei confronti del progetto europeo. O almeno, laddove esso è giunto dopo l’innesco della crisi da deflazione che per troppo tempo i centri decisionali europei e il mainstream economico dominante hanno irresponsabilmente ignorato. Si può immaginare lo sconcerto che una simile decisione ha provocato ai vertici della Bce.

Il crollo del petrolio non fa che aggravare la situazione. I grandi progetti energetici del Mare del Nord e del Polo Nord sono stati definitivamente interrotti per insostenibilità di fronte al crollo dei prezzi.



Inoltre, il blocco economico con la Russia per l’instabilità dell’area confinante, non fa che accrescere i pericoli di un avvitamento pericoloso. La ragione del crollo del prezzo del petrolio non è solo economica, ma come ora appare chiaramente, anche geostrategica, con l’Arabia Saudita che insieme al mondo petrolifero sunnita ha dichiarato guerra alla sbandierata raggiunta indipendenza energetica conseguita dagli Stati Uniti attraverso lo shale gas (il gas estratto dalle argille) e il tight oil (petrolio a grandi profondità intrappolato in rocce impermeabili).



Del resto, dopo sessant’anni di accordi con il mondo saudita, l’America ha improvvisamente cambiato la sua politica medio-orientale insediando un regime sciita in Iraq e, nel mentre, con una giravolta inspiegabile, ha iniziato a negoziare sul nucleare con l’Iran, che è la vera potenza rivoluzionaria dell’area, anche se non ricorre in maniera così dispiegata alla guerriglia tecnologica dell’Isis wahabita.



La Svizzera serra dunque le porte all’Europa, timorosa che gli euro incamerati in questi tre anni di cambio rigido si trasformino in materiale infiammabile capace di minare la ricchezza non solo bancaria del Paese, ma anche quella strutturale. Un rischio dinanzi al quale si possono anche perdere taluni punti sul fronte dell’esportazione.



Insomma, la crisi è politica. E lo è - di qui la pericolosità - nel bel mezzo della più grande recessione economica dopo quella del 1907. Solo gli Stati Uniti hanno ripreso a crescere, ma con fatica e in un contesto di recessione europea e di decrescita asiatica e sudamericana. Tutto ciò indebolisce un ruolo europeo degli Usa (ad esclusione di quello militare antirusso), come documenta il dilagare della protervia tedesca. Nessuno nutre più dubbi che la Germania sia alla costante ricerca di sottrazioni di sovranità e di delegittimazione delle istituzioni europee ancora non completamente sotto il suo controllo, come è evidente dalle continue provocazioni indirizzate al governatore della Bce, Mario Draghi.



Anche la vicenda svizzera ci convince che la crisi europea è crisi politica e di divisione profonda tra le medie potenze del Continente. Anzi, questa crisi dell’Europa prima di tutto politica si distingue per l’asse innaturale ma innegabile che si va formando tra la placida Svizzera e la turbolenta e piagata Grecia, chiamata a breve a un appuntamento elettorale che va perdendo la sua drammaticità per assumere il volto non più del populismo antieuro, ma di una diversa strada di condivisione dei destini non solo monetari dell’Europa.



La via della rinegoziazione dei debiti e della crescita che riduca le disuguaglianze sociali sono i temi centrali di Syritza e dei suoi dirigenti, e sono da intendersi come la più solida ancora di salvezza a fronte di una politica antieuropea che miri a tornare al regime degli Stati nazionali e delle svalutazioni competitive con la caduta che ne deriverebbe in un disordine monetario che non può che essere foriero di immani rischi proprio nei confronti della crescita.

Ciò che invece bisogna capire è che, una volta che la paralisi europea si è visibilmente radicata, l’elevata disoccupazione e la deflazione diventano una minaccia seria che può portare alla disgregazione sociale. Non solo tutte le previsioni della Bce e del Fmi si sono rivelate errate, ma tali errori prospettici si pensa ora di superarli solo con una politica di espansione monetaria e tassi tendenti allo zero che però non porterà a nulla di buono, perché si accompagna una spesa pubblica in declino e alla constante riduzione della domanda. E’ bene ribadirlo: la domanda perduta con la chiusura delle imprese non verrà più recuperata se non con un’ondata di investimenti.



La Banca centrale elvetica teme tutto questo e reagisce riducendo i pericoli che gravano per il peso che sulla stessa Svizzera esercita il “corpaccione” di una Europa in recessione, con un euro sempre più svalutato da deflazione recessiva e che perciò segnala uno stato febbrile pericoloso.