Lo straniero in cattedra che agita l’Università

di Marco Gervasoni
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Venerdì 21 Ottobre 2016, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 00:14
Tutti lamentano la «fuga dei cervelli», un segnale grave di scarsa innovazione del nostro Paese. E tutti a parole vorrebbero dei rimedi per invertire questa tendenza. Ma, per usare un’espressione inglese, not in my backyard, non nel mio giardino, cioè non dentro la mia corporazione. Qualcuno ricorderà le proteste dei sovrintendenti contro la nomina di direttori stranieri alla guida dei principali musei italiani, che però hanno impresso una scossa salutare, come i risultati dimostrano. Oggi la questione riguarda l’università. È in questi giorni sul tavolo di Renzi la firma di un decreto che istituisce le «cattedre Natta», 500 posti di professore universitario finanziati ad hoc, il cui obiettivo è portare all’interno dell’accademia italiana ricercatori e scienziati di «chiara fama».

Per invogliare studiosi stranieri, o italiani occupati in università di altri Paesi, a trasferirsi o a tornare nel nostro Paese, il disegno di legge prevede uno stipendio sensibilmente più alto rispetto a quello degli altri docenti e una procedura più snella e rapida di reclutamento. Due elementi che hanno fatto insorgere una parte del mondo universitario, attraverso una petizione firmata da numerosi e autorevoli cattedratici. Che cosa non piace nel progetto? Non tanto e non solo il diverso trattamento economico di cui godrebbero i «500». Quello che scandalizza maggiormente è la scelta della commissione che li dovrà scegliere: i valutatori saranno infatti prevalentemente universitari stranieri, nominati dalla presidenza del Consiglio.

Il che, secondo gli estensori della petizione, istituirebbe un «legame tra la maggioranza politica del momento e la scelta di docenti universitari e di conseguenza il contenuto della ricerca e dell’insegnamento». Affermazioni seguite da altre proteste in cui, tanto per cambiare, si evocano il ventennio fascista e mire più o meno autoritarie di Renzi, accusato addirittura di voler creare una specie di guardia pretoriana ideologica di «professori di governo» in grado di rafforzarne l’egemonia.

A poco sono serviti i toni concilianti del sottosegretario Nannicini e dello stesso ministro Giannini, pronti ad accogliere suggerimenti e modifiche. La procedura in effetti suona anomala e rappresenta - in ciò hanno ragione i critici - un «commissariamento» dell’università italiana. Molti di loro, e tutti noi (chi scrive appartiene alla «corporazione» dei docenti universitari) dovremmo però con franchezza rivolgerci alcune domande, non proprio retoriche. Cosa abbiamo fatto per spingere il governo a tale decisione? Siamo stati sempre trasparenti nel reclutamento, abbiamo veramente sempre puntato sui meritevoli e sui giovani? Saremmo stati davvero in grado di accogliere dall’estero eccellenze o non avremmo, come spesso è accaduto, puntato sull’amico o sul compagno di cordata?

Un’altra questione che dovremmo porci è questa: siamo sempre pronti a denunciare le lentezze, le inefficienze, i blocchi che appesantiscono il Paese. Lamentiamo giustamente il corporativismo che frena le speranze dei giovani. Ma quando vengono offerte opportunità, anche finanziarie, perché l’università cominci a uscire dal pantano, ci rinchiudiamo a nostra volta in proteste magari legittime ma che inevitabilmente finiscono per essere percepite all’esterno come chiusure corporative.

Infine, una cosa è certa: Mussolini aveva bisogno del «consenso» degli intellettuali, ma oggi nessun capo di governo, e men che meno Renzi, saprebbe che farsene. E per fortuna. Il mondo è cambiato, e con questo il senso e la funzione dell’università: non ci si rifugi perciò nei processi alle intenzioni. E non si abbia timore dell’insolito, visto che la strada battuta è ormai difficilmente praticabile.


 
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