Per invogliare studiosi stranieri, o italiani occupati in università di altri Paesi, a trasferirsi o a tornare nel nostro Paese, il disegno di legge prevede uno stipendio sensibilmente più alto rispetto a quello degli altri docenti e una procedura più snella e rapida di reclutamento. Due elementi che hanno fatto insorgere una parte del mondo universitario, attraverso una petizione firmata da numerosi e autorevoli cattedratici. Che cosa non piace nel progetto? Non tanto e non solo il diverso trattamento economico di cui godrebbero i «500». Quello che scandalizza maggiormente è la scelta della commissione che li dovrà scegliere: i valutatori saranno infatti prevalentemente universitari stranieri, nominati dalla presidenza del Consiglio.
Il che, secondo gli estensori della petizione, istituirebbe un «legame tra la maggioranza politica del momento e la scelta di docenti universitari e di conseguenza il contenuto della ricerca e dell’insegnamento». Affermazioni seguite da altre proteste in cui, tanto per cambiare, si evocano il ventennio fascista e mire più o meno autoritarie di Renzi, accusato addirittura di voler creare una specie di guardia pretoriana ideologica di «professori di governo» in grado di rafforzarne l’egemonia.
A poco sono serviti i toni concilianti del sottosegretario Nannicini e dello stesso ministro Giannini, pronti ad accogliere suggerimenti e modifiche. La procedura in effetti suona anomala e rappresenta - in ciò hanno ragione i critici - un «commissariamento» dell’università italiana. Molti di loro, e tutti noi (chi scrive appartiene alla «corporazione» dei docenti universitari) dovremmo però con franchezza rivolgerci alcune domande, non proprio retoriche. Cosa abbiamo fatto per spingere il governo a tale decisione? Siamo stati sempre trasparenti nel reclutamento, abbiamo veramente sempre puntato sui meritevoli e sui giovani? Saremmo stati davvero in grado di accogliere dall’estero eccellenze o non avremmo, come spesso è accaduto, puntato sull’amico o sul compagno di cordata?
Un’altra questione che dovremmo porci è questa: siamo sempre pronti a denunciare le lentezze, le inefficienze, i blocchi che appesantiscono il Paese. Lamentiamo giustamente il corporativismo che frena le speranze dei giovani. Ma quando vengono offerte opportunità, anche finanziarie, perché l’università cominci a uscire dal pantano, ci rinchiudiamo a nostra volta in proteste magari legittime ma che inevitabilmente finiscono per essere percepite all’esterno come chiusure corporative.
Infine, una cosa è certa: Mussolini aveva bisogno del «consenso» degli intellettuali, ma oggi nessun capo di governo, e men che meno Renzi, saprebbe che farsene. E per fortuna. Il mondo è cambiato, e con questo il senso e la funzione dell’università: non ci si rifugi perciò nei processi alle intenzioni. E non si abbia timore dell’insolito, visto che la strada battuta è ormai difficilmente praticabile.
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