Chi in particolare lo accredita di una grande determinazione, di una scaltrezza non priva di cinismo e di un progetto politico che come sbocco dovrebbe avere la nascita, sulle rovine di ciò che sono stati per vent’anni il centrosinistra e il centrodestra, di un grande “partito della nazione” a guida carismatica e d’impronta realmente post-ideologica, è convinto che l’attivismo sfrenato di Renzi sia funzionale ad un preciso passaggio tattico: anticipare il voto delle politiche al 2017 (il che gli consentirà di sbaragliare ciò che resta delle opposizioni) dopo aver chiesto agli italiani di pronunciarsi sulle sue riforme costituzionali alla stregua di un plebiscito avente come posta in gioco effettiva la sua persona.
In effetti è strano, art. 138 della Costituzione alla mano, che siano i parlamentari della maggioranza - come lo stesso Renzi ha argomentato - a chiedere un voto popolare che secondo logica politica dovrebbe invece essere richiesto da chi si oppone alle riforme e non da chi le ha appena approvate in Parlamento (proprio nei giorni scorsi la Camera ha votato il testo finale, non più emendabile). Da segretario del Pd, arrivato a Palazzo Chigi senza passaggi elettorali, Renzi punterebbe ad accreditarsi attraverso il referendum come innovatore radicale in un Paese malato, come egli non si stanca di ripetere, di conservazione e immobilismo.
Al tempo stesso, un massiccio voto a suo favore che sarebbe per definizione trasversale lo consacrerebbe come un leader capace di parlare ad un fronte elettorale ben più ampio di quello storico della sinistra italiana. Se a quest’ultima sta per concedere il riconoscimento delle unioni civili (anche al prezzo di sfidare i malumori del mondo cattolico), ai moderati ha già offerto l’umiliazione pubblica dei sindacati, toni di orgoglio patriottico che altri leader di sinistra non si sono mai sognati di utilizzare, la rinuncia all’antiberlusconismo militante, ecc. Nella sua “narrazione” c’è in effetti posto per molti se non per tutti: da quando ha preso di mira la Germania e le ottuse burocrazie di Bruxelles persino per i populisti e gli euroscettici. Ci sono però alcune variabili che rischiano di incrinare questo disegno, che prelude alla nascita della Terza Repubblica.
Una è sicuramente rappresentata dall’evolversi nei prossimi mesi del quadro internazionale. Talmente magmatico da risultare pericolosamente imprevedibile. Si è visto quanto basti poco, con la minaccia del terrorismo che incombe su tutti gli Stati e con i molti fronti di conflitto aperti nel mondo, per favorire cambi repentini di umore popolare e per alterare il quadro politico interno. Ma quella determinante sarà la variabile economica, vale a dire l’eventuale perdurare della crisi. Ammesso che Renzi riesca a conseguire tutti gli ambiziosi traguardi che si è prefisso, è sul terreno prosaico del proprio benessere materiale ed economico che gli italiani finiranno per giudicarlo e per valutare la sua credibilità. In questo c’è una differenza con l’epoca berlusconiana, sulla cui retorica Renzi viene spesso appiattito da chi lo critica, che sembra giuocare a suo sfavore.
L’ottimismo a prova di bomba del Cavaliere - un milione di posti di lavoro, meno tasse per tutti, tutti ricchi e felici ecc. - intercettava l’umore euforico di un pezzo significativo del Paese che a quelle promesse credeva sul serio, convinto che la formula della felicità fosse davvero alla portata di chiunque. L’ottimismo non meno ostentato di Renzi, con i suoi continui inviti a credere nel futuro e a pensare positivo contro i gufi di professione, si scontra invece con l’umore degli italiani odierni, con le loro ansie e frustrazioni, che di speranze e attese nei confronti del futuro sembrano averne poche. Il che banalmente significa che “la madre di tutte le battaglie”, ciò che davvero deciderà il futuro politico di Renzi, non è la riforma costituzionale. Ma la ripresa dei consumi, della produzione e dell’occupazione.
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